giovedì 31 luglio 2008

ARTAVAZD PELECHIAN, o dell'evidenza del reale_2

"Si accalcavano intorno a lui, gli offrivano dei fiori.
Per la prima volta il realizzatore armeno di Georgia veniva in occidente. Al culmine di quest’emozione, Paradjanov esclama all’improvviso: “C’è un uomo importante qui! è lui.” ed indica con il dito una sagoma nera con un semplice pettinato a caschetto, che sta passando all’altro capo della hall. E’ lo stesso Paradjanov a fendere la folla dei suoi ospiti per andare, con le lacrime agli occhi, ad accogliere tra le braccia Pelechian, appena giunto dalla città. Accadde a Rotterdam nel 1988..."

Jacques Kermabon,« Planète Pelechian», Bref n°12, 1992, p.10-17. (Catalogo della Biennale di Marsiglia). L'articolo nella sua interezza su www.artavazdpelechian.it.



Fine (Konec ou Vertch), 1992, film in 35 mm, B/N, 8 min. - Fotografia: Grigorian - Suono : O. Poulissonov - Musica: J.S. Bach - Produzione : Studio Haïk.

venerdì 25 luglio 2008

ARTAVAZD PELECHIAN, o dell'evidenza del reale_1

Inizio oggi una serie di post dedicati al grandissimo regista armeno Artavazd Pelechian, caricando video e alcuni articoli della scarsissima bibliografia esistente. Per chi volesse da subito saperne di più, c'è un ottimo sito italiano tutto dedicato al teorico del montaggio 'a distanza' (www.artavazdpelechian.it).



Vita (Kiank ou Zizn'), 1993, film in 35 mm, Colore, 6 min. - Fotografia : Grigorian - Suono : O. Poulissonov - Musica : Verdi - Produzione : Prod. Armenfilm & M/P Aitta.

sabato 19 luglio 2008

WERNER HERZOG_in celluloid we trust








VANITAS: IN CELLULOID WE TRUST
di Lorenzo Esposito (Filmcritica, n. 569, novembre 2006)

In primo luogo ho sentito a un certo momento il cinematografo completamente
vano.
(Roberto Rossellini, 1968)


Una domanda che bisogna porsi sempre: vedere, ma vedere cosa per fare cosa? Quel vedere troppo, che significa anche non riuscire più a vedere nulla, che significa anche restarne accecati - non sarà perchè, a forza di guardare, vediamo troppo poco?

Di Werner Herzog è facile pensare: vuole vedere cose mai viste. Ma la cosa è più complessa: è fortemente intenzionato a filmare cose che non esistono (e quindi che non si vedono?). L’immagine come miraggio di se stessa. In Fata Morgana l’inquadratura guarda verso il fondo del deserto, riprendendo due linee, una più vicina alla terra, l’altra che si allontana verso l’orizzonte. In quest’ultima si vedono con chiarezza delle alture, dei laghi, alberi, una macchina che gira in tondo. Herzog corre verso queste ‘visioni’, ma quando raggiunge il punto dove all’incirca gli sembrava si agitassero, si accorge che non c’è nessuna altura, nessun lago, nessun albero, nessuna macchina che gira in tondo.
Nulla, solo il deserto. Un miraggio, certo, eppure nel film quelle ‘cose viste’ ci sono, visibili nell’inquadratura, sono state riprese. Ciò che viene filmato è sempre possibile considerarlo visto? Si filmano solo cose che si vedono?

(Nel 1974 Herzog, raggiunto dalla notizia della grave malattia di Lotte Eisner, decide di partire a piedi da Monaco di Baviera a Parigi per “impedirle di morire”. Durante il viaggio - una scalata di quasi un mese - scrive un diario, pubblicato quattro anni più tardi col titolo Sentieri nel ghiaccio - “più bello di tutti i miei film”, chiosa nel commentario dvd di Fata Morgana. Nel diario, fra l’altro, si legge:
“Davanti a me non vedo che la strada. A un tratto, verso il crinale di un colle, ho pensato ecco là c’è un uomo a cavallo, ma quando ci sono arrivato vicino era un albero; poi ho visto una pecora e ho avuto il dubbio che fosse un cespuglio, e invece era una pecora moribonda. Moriva in silenzio, era patetica; non avevo mai visto morire una pecora. Andavo molto svelto”).

Il difficile, ma anche l’avventuroso e il tragico, sta nel cammino di ciascuno per ri-conoscere il proprio vedere, per accorciare la distanza che separa il tempo già passato di qualunque immagine e ciò che comunemente ci appare come la nostra vista.

Per questo Herzog ha paura. La paura muove tutti i suoi grandi visionari. La paura di andare ai confini del mondo, il desiderio di saperli inesistenti (oh, se la terra fosse piatta!). Tragico e trasparente come un cuore di vetro. Così anche il film, dopo le sue immagini, si spreca, sempre pronto a fallire, a cadere, a fare bancarotta (Fitzcarraldo). Se il set, o la natura, o la natura del set ‘imbarcano’ pellicola, se il film è solo quel set filmato (che altro poter fare in Aguirre, in Grido di pietra, in Wild Blue Yonder, se non filmare il film mentre si fa set...), ecco il miraggio del cinema.

Le poche immagini che ci è dato vedere nei film, non sono un’aggiunta a tutte quelle dei film precedenti, ma un altro tratto di discesa, una sottrazione di effetti che, forse, potrebbero un giorno condurci indietro all’occhio.

Ecco un segno di vita: il documento reso indocumentabile. Spogliato del suo set e reimmesso nel set fantasma del film. In tutti i commentari dvd Herzog ripete spesso “questa sequenza non l’ho girata io”, “qui non c’ero” (in Aguirre si vede la sua mano sorreggere il baldacchino che, insieme a tutta la troupe, sta davvero affondando nel fango - ed è una scena interna alla finzione film). Echi da un paese oscuro, Il paese del silenzio e dell’oscurità, Rintocchi dal profondo, ma anche Anche i nani hanno cominciato da piccoli, Cuore di vetro, Cobra verde, e ancora La grande estasi dell’intagliatore Steiner, La ballata del piccolo soldato, Il sermone di Huie. Che fragilità in tutta questa energia (volontà di potenza?). In questo febbrile narcisismo del documento, cui viene riconosciuta non la capacità di specchiarsi, ma la passione cinica con la quale, gettandosi a capofitto, manca sempre il suo oggetto supposto. E tutto, è sempre compromesso.

(Compromesso? Compromettersi? Vedi come le parole sfiorano l’invisibile? Questo mancare la realtà del documentario, questo esserne appena un’eco, tanto più falsa, quanto più documentata. Mai visto nessun regista, come Herzog, così intenzionato, in qualche modo misterioso quasi obbligato, a mettere in scena, soprattutto quando documenta).

Il cuore di vetro è lo sforzo dell’umano di superarsi, di trovare quella mutazione in grado di rinnovare la materia, di doppiare un senso per darne uno nuovo. Così, al contrario, questa immagine è troppo umana (per questo tutti questi film di fantascienza, da Fata Morgana a La soufrière a Apocalisse nel deserto a The Wild Blue Yonder?). Davvero, con Nietzsche, in cerca di quell’umanità che le permetta di superarsi e di essere superata.

(E alla fine il vuoto? Il nero? Brandelli di tempo che sottraggono visibilità al cinema, al suo ‘soggetto’. Forse saremo lì dove scompaiono in un colpo d’ala collettivo i rondoni de Il diamante bianco).

Paternità! Paternità! Ecco la questione-Herzog. Come non fu compresa la ‘bella’ inquadratura di Fitzcarraldo e come non fu capita l’immagine ‘sciatta’ di Invincibile. Nessuna delle due erano mai appartenute a alcuno, già non erano più nel momento stesso in cui credevano di mutarsi in film, restando frammenti di un’immagine senza identità. Oggi - Grizzly Man, Il diamante bianco, The Wild Blue Yonder - in attesa di poter filmare la propria morte, si è perfettamente celibi, neppure senza set e senza regia, ma semplicemente altrui.

(Il massimo per Herzog è stato forse girare in veste di attore Incident at Loch Ness di Zack Penn, un falso documentario su un falso film che Herzog finge di dover girare sul lago di Loch Ness, con un produttore bugiardo che a sua volta finge di dare i soldi a Herzog per svelare il mito del grande drago, ma che nel frattempo gira altri due film, uno con una coniglietta di play-boy fatta passare per tecnico del suono e un altro teso a falsare il già falso set con trovate che Herzog giudica eticamente irresponsabili, come fare la ripresa di un falso drago che mentre galleggia all’orizzonte sembra proprio quello vero... Poi però si fa vedere il vero Nessy, che attacca la barca, uccidendo due membri della troupe, uno del documentario di finzione e l’altro del documentario sul film di finzione - non a caso spesso si fa riferimento a Fitzcarraldo, sul cui set morirono degli indios. Mentre la barca affonda - colpo di genio - il regista attore Herzog d’istinto prende la camera abbandonata dall’operatore ucciso - fuori campo la sua voce commenta: “Non so perchè l’ho presa, sicuramente un istinto dovuto a anni di esperienza. Non c’era nient’altro da fare che filmare” - e da solo nell’acqua filma il mostro di Loch Ness, che gli passa accanto, lo tocca, ma lo lascia in vita. Incident at Loch Ness, non un capolavoro, ma esemplarmente teorico, è stato scritto da Herzog stesso con il regista Zach Penn).

Herzog non è un visionario, ma insegue il visionario, sogna di raggiungere il cinema stesso, qualcosa che, se lo si sta vedendo, come minimo vuol dire che è già passato. Ecco perchè fa un cinema così tragico. È come guardare il proprio cadavere: l’autopsia come abbandono al vedere (di nuovo la ricerca del proprio occhio, Herzog e Brakhage). - E il cinema allora resta una lingua sconosciuta. L’enigma di Kaspar Hauser, How Much Wood Would A Woodchuck Chuck..., Fede e denaro, Woyzeck, Dove sognano le formiche verdi, Nessuno vuole giocare con me, La ballata di Stroszek, I medici volanti dell’Africa Orientale, Wodaabe, I pastori del sole, Demoni e cristiani nel Nuovo Mondo. Freak, ma non perchè un nano pone problemi di ‘contenimento’ dell’inquadratura, quanto invece perchè la deficienza mutagena è quella dell’occhio, che cerca con accanimento l’invisibile senza mai potersi soddisfare. Così è anche Herzog: più è fisico, più denuncia una decomposizione, un difetto mostruoso, una lacerazione, l’enigma e la sua trasparenza.

(La stessa finzione che dire io che scrivo un saggio su una rivista per dei lettori).

Ma poi, a ben vedere, si filmano solo temperature - rocce, foreste, deserti, aria, acqua, fuoco, ghiaccio, sottosuolo. Possibilità di essere visti: zero.

giovedì 17 luglio 2008

L'INLAND EMPIRE dei sensi



Conversazione con David Lynch a cura di Fulvio Baglivi, Federico Ercole, Lorenzo Esposito, Donatello Fumarola (Filmcritica, n.571-572, gennaio/febbraio 2007)

L’impressione netta è che INLAND EMPIRE attraversi e oltrepassi il cinema, e si ritrovi in un territorio a cui è difficile dar nome, che ha a che fare con l’esperienza nuda, annullando la tradizionale forma del film e più in generale del cinema (bisognerebbe risalire direttamente a Lumière per trovare la stessa flagranza, lo stesso nesso temporale che si fa immagine). Vorremmo sapere come lei stesso vede, ora, INLAND EMPIRE, e come è nato o da cosa è nato.
Non saprei. Ho realizzato INLAND EMPIRE in modo diverso rispetto ai miei precedenti lavori e rispetto a come si fa il cinema normalmente. Non solo perché l’ho girato in DVcam, ma anche per il modo in cui sono nate le idee che lo hanno reso possibile. Sono le idee che impongono tutto. Quando mi viene in mente, l’idea già ha una sua forza autonoma, si auto-impone. Se mi viene in mente l’idea per una sedia, vedo già la sedia, vedo com’è fatta, mi faccio trasportare dall’entusiasmo e la costruisco così come si è imposta nel pensiero. A volte durante la fase realizzativa mi capita di perdermi. Ma poi se riesco a tornare all’idea da cui è partito tutto, ritrovo subito la forza di andare avanti. INLAND EMPIRE è iniziato con delle idee per alcune scene. Poi ho cercato il modo attraverso cui quelle idee avrebbero potuto adattarsi al cinema, e ho iniziato subito a lavorare, a fare delle riprese. Però le idee che avevo riguardavano singole scene, momenti separati. Il problema era come metterle insieme. È così che è cresciuto il progetto, momento per momento. A un certo punto ho sentito venire fuori l’insieme.

Durante le riprese?
Sì. Perché inizialmente non sapevo se sarebbe stato un lungometraggio o altro. Me ne sono reso conto mentre giravo. È allora che ho chiamato Canal Plus, in Francia, e ho detto loro: “Non so quello che sto facendo, ma ne verrà fuori un film e lo sto girando in DVcam. Volete partecipare?”. Mi hanno risposto di sì. È così che sono andate le cose.

E il risultato rispetta le idee da cui è partito?
Io sento che il film vuole essere in un certo modo, che detta una sua linea. Così continuo a lavorare finché il film non mi parla e mi dice: “Sono pronto.” Con INLAND EMPIRE avevo però la sensazione che le cose stessero prendendo una brutta piega. Stava venendo fuori una cosa troppo diversa dal solito. Parlando con delle persone a Venezia mi sono reso conto che il loro unico problema era che non lo capivano, ma si sforzavano comunque di oltrepassare l’incomprensione iniziale, affrontando il viaggio, e abbandonandocisi. Negli Stati Uniti Hollywood Reporter e Variety hanno stroncato il film, lo capisco, sono delle riviste per il mondo degli affari, e hanno le loro ragioni, non è un film fatto per fare soldi. In Francia Liberation ha pubblicato un bell’articolo, definendolo un “capolavoro”. Credo che sia un film che funzioni diversamente dal resto del cinema, e credo che comunque a una certa parte di spettatori piaccia. Sono curioso di vedere quale sarà la sua sorte in giro per il mondo…

Non c’era un copione prima di iniziare le riprese…
Di solito lo faccio, ma per questo film no. Avevo scritto delle pagine per ogni scena, scrivevo una scena senza sapere quale sarebbe stata la seguente. Questo accade normalmente quando si scrive una sceneggiatura. Si scrive una scena, non si sa quale sarà la seguente, ma si aspetta, non si va a girare la scena. Si aspetta a girare finché il copione è ben strutturato, perché si sa quello che si deve girare. Ma questa volta scrivevo e subito mi mettevo a girare, a ogni scena, senza sapere come mettere insieme il tutto, finché non sono arrivato più o meno a metà film.

Quindi le immagini stesse sono state la pagina bianca dove il film si è scritto, o se preferisce, la tela. Questo mette in causa molto radicalmente la questione del vedere prima di ogni altra. Per lei cos’è l’atto di vedere?
L’atto di vedere è l’atto di sapere. Sapere. È una cosa molto precisa. Il cinema è vedere, è sentire, è tempo, è far fluire una cosa in un’altra cosa con un certo ritmo, con una certa luce. Tutti questi elementi vanno insieme. Un’idea è una specie di sapere istantaneo. È qualcosa che viene all’improvviso e che ha a che fare con l’istante. È come nei fumetti dove fanno vedere che si accende una lampadina. Quella è un’idea. In quell’istante sono presenti tantissime cose contemporaneamente. Quando ho un’idea, comincio subito a scrivere e mi rendo conto che non è una sola frase, ma tante frasi. Poi c’è uno stato d’animo e cerco di descriverlo. Ripenso all’idea di partenza e riscrivo. C’è una stanza che deve essere in un certo modo e la descrivo. Da una sola idea a volte vengono fuori molte pagine. Le idee sono molto importanti e provengono da dove proviene tutto: dalla fonte, da un campo unificato, dall’oceano della coscienza pura. È da lì che proviene tutto. Bisogna tuffarsi in quell’Oceano...

Lei ha detto che l’atto di vedere è sapere. Ma per esempio in INLAND EMPIRE, e non soltanto in questo dei suoi film, occupa una grande parte l’oscurità, il buio... Cos’è quel buio per lei?
La storia del film prende spunto da una donna che ha dei problemi. Questa donna vive in un certo posto e all’improvviso si perde sempre di più in qualcosa che si potrebbe chiamare “oscurità”. La risposta al come e al perché si trova lì, nell’oscurità. Quindi lei continua a andare avanti. Davanti a lei ci sono ovunque delle aperture. Ma c’è anche un’apertura segreta e lì inizia una storia bellissima. Mentre si continua a vedere tutta la sofferenza, tutta l’oscurità, tutti i problemi che ha quella persona. Ma oltre quell’apertura segreta c’è la libertà, c’è la possibilità di godere della totalità, di tutta la storia. È una cosa straordinaria. Nel film Laura Dern ha due nomi: Nikki Grace e Susan Blue. È tutto lì, nel film. Gran parte di INLAND EMPIRE è una discesa agli inferi. Ma alla fine c’è una luce bellissima.

Quello che è interessante è che lei ha girato in video. Se il film fosse stato girato su pellicola 35mm, la grana dell’oscurità sarebbe stata diversa. Con il video c’è qualcosa che ha un effetto di sgranatura. È una strana oscurità perché non è una vera oscurità, è come una nebbia.
Sembra granulare.

Per più di un’ora ci è sembrato di camminare nella nebbia. Sullo schermo quasi non si vede niente, però allo stesso tempo si vedono molte cose, come se succedesse più di quanto si riesce a vedere. È una immagine della differenza: lei ha girato in video, e col video è molto difficile restituire al buio l’oscurità...
Col video è più facile girare nel buio, però hai la grana, è vero. Io ho girato con una telecamera non molto più grande della vostra palmare, però DVcam. Il DVcam offre possibilità eccezionali. Pesa poco e si può tenere in mano. Non si può tenere in mano per molto tempo una Arriflex o una cinepresa Panavision, sono troppo pesanti e ci si stancherebbe moltissimo. Con la videocamera invece posso ondeggiare (uso il pogo stick per ondeggiare), ha la messa a fuoco automatica, riprese da 40 minuti.. È una grande libertà. Posso cambiare facilmente, prima posso inquadrare te e poi lui mentre resto sulla scena. Posso anche parlare agli attori mentre riprendo per farli arrivare alla giusta profondità e continuare a riprendere senza staccare. Non ho il problema che mi finisce la pellicola. Quindi va tutto a favore della direzione degli attori, della scena...
Poi il tutto passa attraverso una macchina e può migliorare. Non è esattamente una qualità da Alta Definizione, però è comunque un miracolo che si riesca a migliorare la qualità mediante gli algoritmi.
L’inventore di questa macchina ha fatto un magnifico lavoro. Abbiamo effettuato dei test dove si possono fare delle correzioni ai colori. Si possono fare tante cose diverse con il telecinema. Ora si fanno tutte queste cose con il telecinema. E il risultato finale è quasi identico al film nel caso fosse stato girato su pellicola. Abbiamo effettuato dei test e il risultato è stato meraviglioso. Nelle scene scure la grana del digitale si mischierà con la grana della pellicola. Sarà stupendo.

È una fase molto ‘musicale’ nella costruzione delle immagini… tra l’altro lei cura sempre la tessitura sonora dei suoi film...
Lo faccio sempre. Le immagini e il suono vanno insieme. Il suono è come se fosse l’altra metà della storia. Deve ‘corrispondere’ alle immagini.
Secondo me quando si realizza un film, si dovrebbe pensare al suono così come si pensa all’illuminazione, alla stanza, a come gli attori si muovono sul set, a come parlano, al ritmo con cui parlano. Il suono è parte integrante di tutto questo, è legato a tutto questo. Quando si inserisce il suono sbagliato, si rompe l’armonia. Allora bisogna cercare di far scorrere il suono rendendolo giusto per creare l’armonia tra immagine e suono. Le cose vanno affrontate insieme.

Parlando di musica, ci siamo sempre domandati perché in Cuore selvaggio ha utilizzato Im Abendrot di Richard Strauss, tagliando il brano prima che inizi il cantato, ogni volta. Glielo chiediamo perché il testo del brano scritto da Eichendorff ha qualcosa di molto simile all’atmosfera del suo film.
Non era mia intenzione tagliare il brano quando comincia a cantare.
Avevo già raccontato questa storia all’uscita del film. Mi trovavo in Germania in una Mercedes nuova di zecca. Nevicava e a un certo punto la macchina si è fermata. Le persone che erano con me andarono in un palazzo lasciandomi da solo in macchina. I fiocchi di neve erano grandissimi.
Non potevo sentire i rumori che provenivano da fuori. Avevano lasciato accesa la radio e il riscaldamento. Poi sentii alla radio questo brano di Richard Strauss. Alzai il volume dell’ottimo impianto stereo della Mercedes. Non so se piansi, forse sì. Una musica bellissima, non l’avevo mai sentita prima.

È uno dei suoi lavori migliori.
Volli assolutamente inserire il brano nel film. E alla fine ebbe il suo effetto sui personaggi, sull’atmosfera, sull’umore del film, dandogli uno spessore molto più ampio. Ma non ci fu mai possibilità nel film di farlo sentire tutto. Ma questa è anche una particolarità delle scene così come le concepisco io. In INLAND EMPIRE, per esempio, c’è una canzona intitolata Locomotion. All’inizio questa canzone durava di più, ma a un certo punto bisognava lasciar continuare il film, non si poteva far sentire tutta la canzone, è contro le mie regole. È meglio fermare la musica per andare avanti che far sentire tutta una canzone. Questo vale anche per il brano di Richard Strauss. Dopo aver soddisfatto la sua necessità istantanea, bisognava andare avanti.

A proposito dell’intero processo di creazione, lei ha fatto fumetti, quadri, ha creato mobili, composto musica, sviluppato un videogioco. Tutti questi formati differenti (anche se non necessariamente diversi) tra loro, sono in un certo modo e allo stesso tempo uguali…
Nel mondo del cinema c’è una società chiamata Seven Arts. Loro dicono di mettere insieme sette arti. Ti fa capire che non sarebbe difficile passando dal cinema interessarsi alla fotografia, e sarebbe facile interessarsi anche al suono, alla musica, all’architettura, al mobilio, alla creazione di vestiti... Io penso che dal cinema si può cominciare a interessarsi anche all’agricoltura. Il cinema apre tanti mondi.



giovedì 10 luglio 2008

3 FILM DI CHRIS MARKER (3)_Level Five



INTERVISTA DI DOLORES WALFISCH
(In The Berkeley Lantern, novembre 1996)

D.W.: Temo che non vincerò l’Oscar per la domanda più originale chiedendole: “Perché Okinawa”?
C.M.: Ultimamente si parla molto di un CD-Rom sulla guerra del ’39. Cerchi Okinawa: “I giapponesi hanno perso 110.000 uomini, tra cui molti civili…”. Doppio errore, le perdite militari giapponesi sono in realtà 110.000, i civili erano gli abitanti di Okinawa, una collettività autonoma con la propria cultura e storia, annessa al Giappone dopo esserlo stato alla Cina…Il numero dei loro morti è stimato a 150.000, un terzo della popolazione dell’isola, un’inezia…Prenda l’enciclopedia Grollier: “Gli americani hanno perso 12.000 uomini, i giapponesi 100.000” – ecco, non una parola sui morti civili che, in gran parte, sono deceduti con un suicidio di massa che è continuato anche dopo la fine della battaglia: li avevano convinti a non arrendersi. È questo esempio unico, uno degli episodi più folli e più atroci della Seconda Guerra Mondiale, dimenticato dalla storia, cancellato dalla memoria collettiva, che ho voluto rimettere in luce.

D.W.: Detto così, ci si aspetterebbe un “documentario di storia”. Ma quello che vediamo è tutt’altro…
C.M.: La televisione ha cambiato molte cose. Tutta la parte su Okinawa di Level Five si articola attorno al racconto di un testimone. Lo immagini in un quadro “documentario” come dice lei (ho sempre odiato questa parola, ma il punto è che nessuno ha saputo trovarne un’altra, i tedeschi sono comunque un po’ più eleganti dicendo “Kulturfilm”…), iscritto nella giornata di un telespettatore, tra il racconto del calvario di un bosniaco, quello di un Ruandese e di un sopravissuto della Shoah. Quanti calvari può assimilare così, e lasciare che ognuno di essi permanga unico. Dovevo trovare qualcos’altro.

D.W.: Questo altro include il videogioco, le immagini computerizzate e la presenza di una donna?
C.M.: Sì, le mie allucinazioni preferite. Mi esprimo con quello che ho. Contrariamente a quello che spesso si sente dire, nel cinema, la prima persona è piuttosto un segno di umiltà: “Tutto quello che posso offrire è me stesso”.

D.W.: Dunque Laura sarebbe un tramite, il link mancante tra lo spettatore e l’atrocità della guerra?
C.M.: È abbastanza integra da non sentirsi a disagio nell’esplorare a fondo la sua tragedia personale e quella della guerra perché ogni tragedia è in sé unica. Una piccola borghese colpevolizzata , anche se lo pensa, non lo direbbe mai (anzi penserebbe che la sua tragedia è più grave). Laura sa che la sofferenza non è un’aristocrazia. Depone la sua accanto a quella delle vittime di Okinawa come uno di quei bouquet che i genitori dei bambini annegati gettano in mare. Per conto mio, siccome penso che per uno spettatore sia più facile riconoscersi nella sofferenza di Laura piuttosto che in quella di un uomo che ha massacrato la propria famiglia, scommetto su questo riconoscimento per farlo accedere al livello di compassione che Laura ha raggiunto immergendosi nella tragedia di Okinawa. Ma è una scommessa.

D.W.: Questo “livello” è Level Five?
C.M.: Ci sono i livelli del gioco. Quelli che vengono usati metaforicamente per classificare le cose e la gente e il modo in cui entra lei stessa nel gioco. A cosa stia pensando alla fine, io non lo so. Lascio allo spettatore questo compito.

D.W.: È un modo per rispettare lo spettatore o ignorarlo?
C.M.: Non penso mai ad un possibile spettatore. Mi hanno accusato di disprezzo. Parliamone: fare tutto per uno spettatore immaginario, quindi credersi abbastanza furbi da programmarlo nella propria testa e adattarsi a lui, oppure dirsi semplicemente di non poter incontrare altra gente che possa provare le stesse cose nello stesso modo. Da che parte è il disprezzo?

D.W.: Perché Catherine Belkhodja?
C.M.: Non si discute l’evidenza.

D.W.: Lo spazio di lavoro di Laura, dove dialoga per la maggior parte del tempo, sembra essere lo spazio di realizzazione del film stesso.
C.M.: Esatto. Era una delle particolarità del dispositivo, la scena diventa lo strumento di realizzazione. Il computer che vediamo, il buon vecchio PowerMac, è servito per gli effetti visivi. La consolle che si vede all’inizio è il mio tavolo di montaggio. Fatta eccezione per le riprese giapponesi, si è fatto tutto in due, senza equipe, senza tecnici, in sei metri quadrati. Recentemente Lelouch ha detto di sognare di fare un film senza tecnici e mi chiedo che cosa glielo impedisca. Se si tratta solo di trovare un produttore senza un soldo posso indicarglielo io.

D.W.: Un manifesto di quel “cinema povero” giustamente enunciato recentemente in una scuola di cinema?
C.M.: Un cinema possibile. Sarebbe stupido vederci altro. Un film come Lawrence D’Arabia, Andrei Roublev o Vertigo, non verrà mai girato in questo modo. Ma adesso gli strumenti ci sono ed è una novità per il cinema intimistico, della solitudine, un cinema realizzato con il faccia a faccia con se stesso, quello del pittore o dello scrittore, avere accesso ad un altro spazio diverso da quello del film sperimentale. La camera-stylo del mio amico Astruc era comunque una metafora. Il più piccolo oggetto cinematografico aveva ancora bisogno del laboratorio, della sala di montaggio, di un sacco di soldi… Oggi, un’idea e un minimo di materiale permetterebbero a un giovane regista di mettersi alla prova senza dover corteggiare i produttori, le reti televisive o le commissioni.

D.W.: Lei non concede mai interviste. Che le è successo?
C.M.: Berkeley è la mia seconda patria. La terza con il bar “La Jetée” a Tokyo… Ne ho approfittato per chiarire due o tre punti sui quali ci potevano essere dubbi. Ma per il resto, se il film non risponde alle domande poste all’autore è perché non valeva la pena di essere fatto.

Dal Press Book