martedì 30 dicembre 2008

ELENCO VISIONI 2008



LUNGOMETRAGGI
CHANGELING di Clint Eastwood
CONTROL di Anton Corbijn
I DON'T WANT TO SLEEP ALONE di Tsai Ming-Liang
IL DESERTO ROSSO di Michelangelo Antonioni
IL GRIDO di Michelangelo Antonioni
INLAND EMPIRE di David Lynch
LA CLASSE di Laurent Cantet
LEVEL FIVE di Chris Marker
MILLENIUM MAMBO di Hou Hsiao-Hsien
NOSTRA SIGNORA DEI TURCHI di Carmelo Bene
PARTNER di Bernardo Bertolucci
PRIMA DELLA RIVOLUZIONE di Bernardo Bertolucci
QUERELLE di Rainer Werner Fassbinder
SANS SOLEIL di Chris Marker

CORTOMETRAGGI
A PROPOS DE NICE di Jean Vigo
ART OF MIRRORS di Derek Jarman
END di Artavazd Pelechian
HERMITAGE di Carmelo Bene
LA CRAVATE di Alejandro Jodorowsky
LA JETéE di Chris Marker
LIFE di Artavazd Pelechian
LIFELINE di Victor Erice
THE SUPER 8 PROGRAMME di Derek Jarman
SIH FIGURES GETTING SICK di David Lynch


SERIE TV
LAST EXILE di Koichi Chigira

VIDEOCLIP
AFTERHOURS - E' solo febbre
BJORK - Declare independence
BJORK - Earth intruders
BJORK - Innocence
BJORK - Oceania
BJORK - Pluto
BJORK - Triumph of a heart
BJORK - Wanderlast
BJORK - Where is the line?
BJORK - Who is it
CHRIS CLARK - Gob coitus
INCUBUS - Here in my room
INCUBUS - Pistola
INCUBUS - Sick sad little world
LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA - Per combattere l'acne
MAXIMO PARK - Graffiti
PERTURBAZIONE - Agosto
RADIOHEAD - House of cards

PERFORMANCE
A LIFE IN SUITCASES di Peter Greenaway

sabato 27 dicembre 2008

I DON'T WANT TO SLEEP ALONE di Tsai Ming-Liang



PAESE NATALE, MATERIA PLASTICA di Cyril Neyrat
tratto da Cahiers du Cinéma n° 623 - Maggio 2007 (traduzione di Eugenio Renzi)

Primo piano, accanto ad un uomo disteso su di un letto, una radio portatile diffonde le note di un’opera lirica. I Don’t Want to Sleep Alone è uno dei sette film del progetto New Crowed Hope, vasta iniziativa artistica finanziata dalla città di Vienna per il duecentocinquantesimo anniversario di Mozart (vedi Cahiers n° 618). Qualche piano più tardi, una seconda aria da Il Flauto magico sottolinea il riferimento, furtiva ma tale da mettere il film sotto il doppio segno dell’amore difficile e dell’incantamento melodico. La musica lascia in seguito la grande cultura europea per la canzone popolare asiatica, sfondo sonoro ricorrente, cantato per strada o diffuso alla radio e alla televisione.
Cosa resta di quella tendenza del cinema asiatico, di cui Tsai Ming-Liang fu la testa di ponte in Europa negli anni novanta? Molti film dimenticati in fretta, confusi nella memoria in un medesimo accademismo dai due sintomi ricorrenti: mutismo e formalismo. Tsai stesso è stato sul punto di perdercisi. Se ha saputo riprendere la sua andatura, è stato segnatamente attraverso l’eccesso e la radicalizzazione dei luoghi comuni. Con l’ultra-silenzioso Il Gusto dell’anguria, si arrischiava sul limite di un formalismo da togliere il fiato.
Meno spettacolare, I Don’t Want to Sleep Alone ha la certezza semplice di un nuovo corso. Non una rivoluzione estetica, ma uno spostamento geografico, da Taipei a Kuala Lumpur, basta a modificare gli equilibri. Carica di una gravità e di una nuova necessità politica, sgombera di ogni inflazione formale, la lentezza di Tsai rinuncia al vuoto per riempirsi della durata degli affetti. La vicinanza con Apichatpong Weerasethakul non è soltanto geografica: Tsai, assumendo il suo lato sentimentale, abbandona la sua freddezza da entomologo per portare attenzione agli slanci, via via duri e dolci, dei suoi personaggi.
Un gruppo di immigrati del Bangladesh raccoglie per strada un vecchio materasso sporco, poi un cinese ritenuto morto da una banda di assassini locali. Rawang, un malese che vive con loro in un palazzo lasciato incompiuto dalla crisi, si prende cura di Hsiao Kang e lo rimette in condizione di tenersi in piedi. Nello stesso luogo vive Chyi, giovane cinese impiegata dalla padrona di un ristorante e incaricata di curare il figlio di questa, l’uomo in coma del primo piano. Hsiao Kang diventa l’oggetto del desiderio di Rawang, di Chyi e della sua padrona, la circolazione del materasso accompagna così quella degli affetti. Dopo sette film realizzati a Taiwan, Tsai ha girato quest’ultimo nel suo paese d’origine. Ne Il Gusto dell’anguria, aveva svuotato Taipei dei suoi abitanti e trasformato la capitale nella scenografia di una commedia musicale, popolata soltanto di alcune coreografie colorate.
Il popolo non è cancellato dalle strade di Kuala Lumpur: spaesare il proprio cinema e ritornare al proprio paese natale, è anche per Tsai un modo di ritrovare un’iscrizione più realista nella società contemporanea. Il popolo discute, chiacchiera nelle scene di gruppo. In contrappunto, il mutismo dei personaggi non appare più come un partito preso stilistico, ma come un modo d’essere, attributo di una condizione sociale: solitudine, noia, difficoltà a comunicare quando non si parla la stessa lingua. Questo popolo non è un’astrazione, ma il sottoproletariato cosmopolita di lavoratori immigrati, venuti in Malesia approfittando del boom economico e in seguito privati dell’impiego dalla crisi economica della fine dei Novanta. Molto più del titolo internazionale, che sottolinea in maniera fallace l’intrigo sentimentale, il titolo originale cinese insiste sull’intenzione politica e sull’iscrizione locale. Hei Yan Quan significa «occhi cerchiati d’oro» o «gli occhi dal burro d’oro». L’espressione designa lo stato nel quale Rawang ritrova Hsiao Kang, ma fa anche allusione ad uno scandalo politico malese. Nel 1999, il vice-primo ministro Anwar era stato condannato e imprigionato, segnatamente per sodomia. Durante il processo, un materasso era stato presentato come prova a carico, e l’accusato era apparso con gli occhi cerchiati, conseguenza delle violenze poliziesche. Per molto tempo, Tsai ha cercato un attore indiano o bangladese per il ruolo di Rawang, e aveva scritto le scene di sesso tra Hsiao Kang e lui. Essendo l’attore un malese, e l’omosessualità tabù presso i musulmani, ha dovuto rinunciare a queste scene. Resta il materasso, ricordo dello scandalo e dell’ingiustizia, oggetto di transizione burlesca dei rapporti amorosi. La radio, voce grottesca della propaganda consumistica, vuole convincere della necessità di cambiarlo regolarmente.
Rawang, Hsiao Kang e Chyi dovranno adattarsi al loro, sporco e infestato, per soddisfare i propri desideri e, a misura della sua circolazione, disegnare lo schizzo di una comunità. Perché, lungi dall’esser vano, il gioco burlesco dell’immobilità e del movimento, dell’inerzia e della circolazione dei corpi e degli oggetti, fa passare da delle solitudini alienate alla possibilità di una relazione, dalle cellule separate ad un frammento di mondo comune. La comprensione dei luoghi da parte dello spettatore è in funzione delle relazioni tra i personaggi. Ognuno sembra vivere in uno spazio autonomo, senza rapporti con l’altro fino alla rivelazione dell’unità topografica. Non si comprende che a metà strada che gli spazi di Chyi e di Rawang sono contigui, che essi abitano lo stesso palazzo: quando, incontrando la giovane nelle scale, Hsiao Kang cerca di rimorchiarla con il doppio gesto di un regalo, dei fiori elettronici di plastica, e di una spinta che versa il liquido delle tazze sul vassoio che lei porta al piano di sopra. Ne Il Gusto dell’anguria, l’aridità era una bella idea. L’acqua improvvisamente cessava di sgorgare, chiusa e imprigionata nelle bottiglie di plastica. Cuori secchi, mondo senz’altro amore che il sesso meccanico e feticista del porno e delle angurie. Segno di una volgarizzazione della favola in I Don’t Want to Sleep Alone, l’acqua torna a sgorgare, senza perciò inondare. Tsai coniuga i suoi due stati: corrente nella casa, stagnante nel grande bacino trasformato nel tempo di un piano in un lago dove Rawang finge di pescare, sognando forse la campagna della sua infanzia, quella dove è nato Tsai. In questo piano come altrove, l’incanto non si sostituisce alla noia quotidiana attraverso una decisione dell’autore: appartiene ai personaggi di addolcire la loro esistenza, di scegliere l’inerzia o il gioco. Resistere alla dittatura degli oggetti, vuol dire profanare il loro uso. Rawang ama bere delle bibite colorate in delle saccocce di plastica. Ad una di esse attribuisce delle proprietà taumaturgiche, e si intestardisce a porla sulla fronte di Hsiao Kang ammalato. Verde, rosso... giallo: la burla cade nella scatologia quando Tsai si attarda sulla saccoccia di plastica dove si riversano le urine del comatoso. Le saccocce di liquido giocano in tono minore la partizione musicale: forme e immagini di un mondo fittizio e feticista, distorte e rilanciate nella circolazione giocosa dei simboli.
Così come alla carne e agli umori dei corpi, il sensualismo di Tsai si aggrappa alle materie fredde del mondo contemporaneo: cemento degli immobili e dei corridoi, ma soprattutto plastica delle bottiglie, dei sacchi, dei fiori finti offerti a Chyi. Quando un gigantesco incendio spande un fumo spesso nella città e costringe gli abitanti a portare delle maschere di protezione, la plastica sale sui visi: a causa della penuria di maschere, i più poveri, tra cui Rawang e Hsiao Kang, utilizzano dei sacchi del supermercato. Gioia della farsa: Hsiao Kang e Chyi tentano di fare l’amore con le proprie maschere, le tolgono per baciarsi e finiscono per rinunciare, frustrati dai colpi di tosse. L’anguria era un frutto poco credibile: anche quando autentica, aveva l’aria di essere sintetica. Spingendo più in là quest’intuizione, Tsai arriva al punto di rappresentarsi l’incubo di un’umanità di plastica. Un primo piano impressionante si attarda sulla testa dell’uomo in coma durante la sua toletta: la maniera in cui Chyi gli insapona il viso e i capelli con i guanti sulle mani dà i brividi, i movimenti e le cure che questi producono creano la sensazione fisica della plastica.
A questa scena di agghiacciante umanità, succede la sua variante umana, ai gesti meccanici di Chyi quelli di Rawang, dolci e applicati, mentre si prende cura di Hsiao Kang paralizzato dal pestaggio. Anche qui, sensualismo delle materie: alla luminosità fredda e cruda della scena precedente si oppone quella ovattata, vista attraverso il velo che Rawang ha tirato come una gabbia protettiva intorno al materasso. Per spiegare il doppio ruolo interpretato da Lee, Tsai propone di vedere la storia di Hsiao Kang come il sogno di un malato. Altra ipotesi: il malato come un incubo di Hsiao Kang, o come l’immagine dello stadio terminale di un’umanità di plastica trasparente. Che vede se non il suo doppio, l’immagine di un divenire possibile? Il fumo completa il quadro di un mondo apocalittico. Tsai dialettizza il disegno attraverso una costante reversibilità dei segni, che porta all’opposto di ogni nostalgia dell’autenticità. Come il velo rosa, il fumo giallo attenua la freddezza e l’inerzia del mondo, diventa una nebbia del possibile nella quale il materasso diventato zattera va alla deriva, idea di un mondo possibile per il trio di amanti. Contro i pessimisti del viaggio e i relativisti della globalizzazione, Tsai ricorda che andare altrove è ancora un' esperienza da cui tirar profitto. Un materasso, dei sacchi di plastica, i gesti di lavoratori immigrati: i segni sono lì per chi voglia vederli. Hanno due facce, per tenere insieme un racconto il corpo politico e l’ombra sentimentale.

lunedì 15 dicembre 2008

LYNN FOX: il corpo, il bit e la poesia

LYNN FOX: VIDEOMUSICA DIGITALE
di Alessandro Amaducci (da TURIN D@MS REVIEW)

Lynn Fox è una sigla dietro la quale si celano tre artisti inglesi che sono usciti recentemente alla ribalta nel mondo videomusicale entrando nella stretta cerchia di coloro che riescono a coniugare sperimentazione e mercato, producendo videoclip non banali ad alto contenuto tecnologico e dallo stile fortemente riconoscibile.

Dal punto di vista stilistico il gruppo si muove seguendo due tracce piuttosto differenti tra loro, probabilmente due percorsi appartenenti a membri diversi del gruppo. Il primo, quello più fortemente caratterizzante, usa la grafica 3D per inventare spazi e strutture geometriche affascinanti e sinuose, con forti richiami alla grafica Art Nouveau, creando architetture impossibili, leggere e sospese, mentre in altri casi la computer grafica ridisegna spazi sottomarini dominati da creature luminose e trasparenti, e quindi dalla ricerca sulle forme astratte si passa al fotorealismo digitale un po’ più tradizionale, sebbene sempre molto raffinato. Il secondo percorso stilistico si poggia invece tecnologicamente su un interessante uso delle tecniche di compositing digitale, e parte da un lavoro di ricerca sull’immagine del corpo e delle sue trasformazioni (tappa oramai obbligata per tutti i registi di videoclip impegnati, o costretti, a dover raffigurare il musicista-performer) figlio di tanta videoarte, di quella body-art “estrema” molto in voga in questi anni, e della tradizione visiva, oramai possiamo chiamarla così, consolidata da registi “maledetti” come Chris Cunningham.

Per quello che riguarda la computer grafica 3D sicuramente le opere più interessanti sono quelle realizzate per gli Incubus, gruppo per il quale Lynn Fox hanno avuto la fortuna di poter fare a meno di visualizzare i membri, potendo così creare delle opere audiovisive autonome. Nel videoclip Pistola le pagine di una sorta di taccuino di disegni infantili e irriverenti vengono animati in modo intelligente e tecnicamente interessante, con una commistione di 2D e 3D (in realà anche il 2D è gestito da software 3D) per cui i disegni prendono forma, si muovono, escono dalle pagine e conquistano la terza dimensione, ovvero, d’accordo con una sorta di ossessione di chi lavora in 3D, vengono osservati da tutti i punti di vista, per cui la camera virtuale ruota intorno agli oggetti. Un altro elemento di interesse è una certa libertà di montaggio, per cui la parte visiva non segue direttamente la ritmica della musica, ma la contrappunta seguendo un percorso più svincolato.

Questi elementi caratterizzanti si sviluppano al meglio in un altro videoclip sempre per il gruppo musicale Incubus, che è il capolavoro di Lynn Fox: Sick Sad Little World. L’inizio del video ha un intento dichiaratamente autoriale: mentre la musica cresce e ritmicamente si sviluppa, a livello visivo una forma semiorganica arancione cresce lentissimamente. La divaricazione fra audio e video crea un effetto ipnotico e spiazzante. Fino ad un certo punto il video sembra finire lì: la crescita di un organismo monocellulare. Ma all’improvviso, e questa volta in accordo con la musica, si apre un mondo di figure femminili semiumanoidi: dei corpi fatti di architettura, leggeri, dall’esoscheletro fragile come gli insetti, mentre intorno a loro volute di costruzioni immaginarie creano un universo di curve e piani semitrasparenti che si intersecano. Il rischio di diventare barocchi è vicino, ma i Lynn Fox lo corrono volentieri, anche perché la musica a volte entra in accordo con questo tipo di immaginario, a volte si allontana, creando consonanze e dissonanze. Questo mondo di donne-farfalla è minacciato dall’esterno: infatti arrivano aerei e carri armati, sempre però visualizzati con tratti stilistici da disegno architettonico (queste figure sono modelli che si sono intravisti anche nel videoclip precedente). La guerra che ne segue non si capisce fino a che punto sia una battaglia o un accoppiamento, sta di fatto che anche in questa fase del videoclip gli occhi dello spettatore sono inondati di forme organiche che esplodono, luci, colori. L’intelligenza di Lynn Fox sta nell’evitare lo standard fotorealistico al quale siamo abituati a favore della ricerca di uno stile e di un’atmosfera visiva.

La coerenza stilistica del gruppo fa sì che anche quando la volontà è di creare ambienti fotorealistici, si cerca, in un qualche modo, una realtà “trasparente”, come il mondo sottomarino e i suoi pesci luminosi: è il caso di Nature is ancient per Bjork, artista musicale attenta alla ricerca visiva e che rappresenta un vero e proprio “caso” a cavallo fra la musica elettronica e l’arte contemporanea, un videoclip dove, forse per la prima volta, il corpo della musicista non c’è, o meglio viene evocato sotto forma di feto solo alla fine, dopo una carrellata di immagini di organismi cellulari dentro un mondo intrauterino ma immaginario, costellato anche di creature minacciose e sanguinarie. L’ultima immagine, Bjork in versione feto luminoso, è densa di citazioni divertite: ovviamente 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick ma anche il videoclip di Michael Stern Teardrop, realizzato per i Massive Attack.

Ovviamente, come si diceva prima, il corpo è un elemento importante sul quale giocare laddove la computer grafica non è la protagonista del video, ma piuttosto il compositing e le elaborazioni digitali di elementi ripresi dal vero. È il caso di Pluto, sempre per Byork, in questo caso non un vero e proprio videoclip ma un supporto visivo da sfondo per i suoi concerti, dove un uomo nudo e calvo in uno spazio vuoto e scuro compie una serie di movimenti convulsi fino a “scoppiare” e diventare una sorta di albero fatto di doppi del suo corpo. Le assonanze con operazioni come Flex o Rubber Johnny di Chris Cunningham qui sono evidenti, ma in ogni caso Lynn Fox dimostrano autonomia stilistica e maggior controllo della tecnologia. Sempre su questo versante altrettanto riuscito è Gob Coitus per il d.j. targato Warp Chris Clark: un videoclip che attraversa in maniera esemplare le due linee stilistiche di Lynn Fox. In una specie di garage sotterraneo un uomo lentamente si trasforma in una creatura a metà fra l’umano e l’insettiforme, compiendo evoluzioni e volando come se fosse una vespa impazzita. E se anche, come in questo caso, il gruppo di architetti cerca quelle atmosfere “malate” piuttosto di moda oggi, ricorrendo ad un tipo di fotografia e di montaggio oramai piuttosto connotati, riescono comunque ad essere originali e riconoscibili. Più vicino al loro stile rarefatto e sinuoso è Unravel, uncora una volta per Bjork, dove la musicista islandese è collegata ad uno suo doppio che è un corpo-ectoplasma sospeso nel vuoto. Il “cordone ombelicale” che unisce le due figure è collegato al corpo di Bjork ad una sorta di piccola “bio-porta” di peluche blu, doppia citazione dell’opera di Meret Oppenheim e, ovviamente, di ExistenZ di David Cronemberg.

Un piccolo discorso a parte meritano invece quei videoclip dalla struttura più tradizionale, dove comunque Lynn Fox riescono ad infondere qualcosa del loro particolare stile: e questo è la prova più evidente della capacità autoriale del gruppo. In Graffiti, per i Maximo Park, il gruppo viene messo dentro un stanza che ruota: dato che la camera è fissata l’effetto è che ci siano degli “scherzi gravitazionali” sui corpi delle persone. È un effetto che oramai affascina molti registi (lo si potrebbe chiamare “effetto Kubrick”) e che ha delle chiare assonanze, di nuovo, con 2001 Odissea nello spazio, nonostante (ma questo crea anche un contrasto divertente), le atmosfere in questo caso non siano affatto spaziali, ma molto sixties. Un altro videoclip molto interessante è Bitten per i D.O.G., dj di stampo hip hop, genere pericolosissimo per qualsiasi regista di videoclip. Anche in questo caso, Lynn Fox riescono felicemente a superare gli stilemi classici del genere e realizzano un video con un finto piano sequenza (in realtà c’è un lavoro molto accurato di postroduzione che nasconde i tagli), dove la soggettiva della telecamera, e lo sguardo a cui ipoteticamente appartiene, vengono sottoposti a violenze di ogni genere: tecnicamente è il video più complesso e interessante del gruppo di architetti inglesi.


INCUBUS - Pistola




INCUBUS - Sick Sad Little World




INCUBUS - Here in my room




BJORK - Pluto




CHRIS CLARK - Gob Coitus




MAXIMO PARK - Graffiti

martedì 9 dicembre 2008

Oceania_BJORK VIDEOGRAPHY_8

Ancora un estratto da MEDULLA. Questa volta il video è diretto da LYNNFOX, una sigla dietro la quale operano tre artisti inglesi (di loro parleremo nel prossimo post).

lunedì 1 dicembre 2008

CHANGELING di Clint Eastwood



Mariuccia Ciotta (il Manifesto, 14 Novembre 2008)

«Noi faremo delle strade di Los Angeles il nostro tribunale permanente e abbatteremo gli assassini sul campo. Non voglio che mi consegnino vivo nessuno di questi uomini, li voglio morti, e punirò ognuno dei miei che mostrerà la minima pietà per quei criminali». A parlare non è Dirty Harry nel film di Clint Eastwood The Changeling, ma il capo della polizia James «Two Guns» Davis, che comandava la Lapd (L.A. Police Department) nel 1928, agli ordini del sindaco-sceriffo George E. Cryer. Storia vera, poliziotti e politici veri. Ed è «la verità la virtù più importante del pianeta» dice il regista, che ha prodotto e composto le musiche del più dark dei suoi film, più di Million Dollar Baby (Oscar 2004). Le lettere da Iwo Jima questa volta portano il timbro di Los Angeles. La «mezzanotte nel giardino del bene e del male» richiama lo spirito di Christine Collins (Angelina Jolie) che alla vigilia della Depressione fu al centro di un caso che sconvolse la città e che rimase sepolto tra le polvere dell'archivio del Los Angeles Times, prima che arrivasse nelle mani di Eastwood.
La maschera bianca di Angelina Jolie, bocca come un segnale rosso sangue, è stagliata nella penombra. Il suo sguardo cambierà dall'epoca delle presidenze Coolidge e Hoover, i liberisti del «laissez faire» che scatenarono i più forti contro tutte le Christine Collins, fino all'attualità dell'America di oggi. Lavorava in un call-center degli anni Venti la donna che tornando a casa non trovò più il figlio Walter di 9 anni. Scomparso, rapito. Dopo pochi mesi la polizia le riconsegnò un bambino che diceva di essere Walter, ma non lo era. Da qui Eastwood riprende i fili di Mystic River, dal giorno del Columbus Day per scatenare tutta la sua potenza di fuoco sulla «perdita dell'innocenza» di un paese alla ricerca di qualcuno che si ribelli. Mai il cineasta di San Francisco, che il 31 maggio compie 78 anni, è andato così dritto al cuore, mai la sua radiografia dell'America è stata così spietata. Il corpo leggero di Christine Collins si muove nel labirinto degli orrori, che nessun Ellroy saprà descrivere, una polisinfonia di generi che passano uno nell'altro senza cesure, dal dramma familiare allo splatter, dal poliziesco, al thriller, al cinema politico, a quello manicomiale in un percorso ipnotico che evoca ogni gioiello hollywoodiano, passato e futuro.
Il bambino, dunque, non è Walter, ma il poliziotto J.J. Jones violentemente insiste, accusa Christine di essere una folle madre snaturata e la fa rinchiudere in un ospedale psichiatrico senza autorizzazione e senza processo, in applicazione del «Codice 12», che permetteva di internare le persone «difficili». La gente amava gli happy-end e la Lapd che dal '28 ad oggi non ha cambiato reputazione, pessima, voleva incassare il successo del bimbo ritrovato. Esecuzioni di notte contro i muri di Los Angeles, prigionieri mitragliati stile Al Capone, cadaveri buttati nei canali, Clint ci dà un quadro d'insieme di chi ha scritto sulla divisa «Proteggere e servire».
L'età dell'oro di Hollywood si sgretola, come negli Spietati l'epopea del West. Tram rossi percorrono surreali la città degli angeli da Pasadena a Santa Monica, dall'estremo nord all'oceano, prima dello smantellamento del servizio pubblico. Eastwood li ricorda quand'era bambino e il padre, girovago della Depressione, lavorava a una pompa di benzina. Tram elettrici che portano Christine Collins dalla vita normale al lettino dell'elettroshock, brutalizzata, umiliata, drogata perché ha osato contraddire la polizia. Quel figlio non è suo, continua a ripetere. E The Changeling va verso il Samuel Fuller di Shock Corridor e il gelo mortale dei trattamenti psichiatrici di Titicut Follies di Wiseman. Tutto in un film, ghiacciata apocalisse, sulla forma morale dei resistenti alle ingiustizie, come il pastore presbiteriano Gustav A. Briegleb (John Malkovich) militante del pulpito, che aiuta Christine e dalla sua stazione radio rivela gli abusi della Lapd. L'enigma della scomparsa del piccolo nasconde un capitolo horror, l'abuso sui bambini, e Clint ci fa assistere a una carneficina fuori campo con il serial-killer Gordon Stewart Northcott (Jason Butler Harner), che fa a pezzi con l'accetta le vittime dei suoi sequestri. Una fattoria in mezzo al nulla e l'indicibile sacrificio umano, compiuto con l'aiuto di un ragazzino forzato a uccidere, che poi confesserà tutto. Ecco, il condannato ideale da mandare a morte, il pedofilo assassino. E ancora Eastwood ci accompagna in un altro girone dell'inferno, sotto la forca, dove in diretta il pervertito macellaio sarà impiccato. «True crime», il vero crimine che ci riguarda. Insieme ai famigliari dei bambini uccisi, assistiamo agli ultimi istanti dell'uomo incappucciato che canta Silent Night, una canzone di Natale. Struggente, intollerabile sequenza per «ritrovare una certa pace interiore», se siete a favore della pena capitale. «Di quale pace parlate? - si chiede Eastwood - Dopo uno spettacolo simile, quale tranquillità sperate di ritrovare? È per questo che ho voluto filmare questa scena con il più grande realismo, il rumore del collo che si spezza quando il corpo oscilla nel vuoto, i piedi che si agitano al momento dell'agonia... è insopportabile da vedere, ed è questo l'effetto che cercavo». Nella realtà, Northcott fu condannato all'ergastolo.
Walter non fu mai ritrovato, ma la madre cercò ancora e la parola «speranza» è l'ultima pronunciata da Angelina Jolie. Christine Collins aveva insegnato al figlio a essere gentile con gli altri, e Walter probabilmente fu ucciso dal maniaco perché tornò indietro a salvare un compagno di fuga. E lei, che pensava di lottare solo per il suo bambino, si ritrovò a combattere per l'abolizione del «Codice 12», per la condanna del capo della polizia e per la caduta del sindaco. Dopo verrà Franklin Delano Roosevelt, un «new deal».
Un manifesto poetico-politico, cinema classico e futuribile, visione di quel che non vediamo. Illuminato magnificamente di ombre da Tom Stern, direttore della fotografia di quasi tutto Eastwood, il film è stato finanziato dall'Universal e, tra gli altri, da Ron Howard, assente invece la Warner Bros, che accoglie da sempre gli Studios della Malpaso. The Changeling non ha vinto la Palma d'oro 2008 (sarebbe stata la prima volta di Clint) ed è stato recensito tiepidamente perché privo, dicono, dell'ambiguità eastwoodiana. Eppure la luce accecante del film è più inquietante di ogni ombra.