domenica 23 novembre 2008

LAST EXILE di Koichi Chigira











Alla scoperta dei cieli
di Aldo Spiniello (da Sentieri Selvaggi)

Ha un fascino tutto particolare questo Last Exile, serie animata in 26 episodi, diretta dal regista Koichi Chigira (già impegnato in Gatekeepers, Blue Submarine no. 6 e Full Metal Panic). Si tratta di una delle ultime creazioni dello studio Gonzo e rappresenta un’ennesima tappa nell’utilizzo combinato della computer graphic in 3D e dell’animazione tradizionale in 2D (il character designer è lo stesso di Blue Submarine, Range Murata).

Siamo in un mondo immaginario, in cui l’acqua è un bene raro e prezioso ed esiste una fonte d’energia misteriosa, la Claudia. A gestire l’utilizzo di questa energia e a conservare il patrimonio della conoscenza tecnologica è una potente organizzazione, la Gilda (The Guild), che, attraverso le sue regole ferree e grazie al potere misterioso e incomprensibile dell’Exile, esercita il controllo su Anatorey e Disith, i due regni di Prester. Separati da una zona di forte turbolenza, il Grand Stream, i due regni sono impegnati da tempo in una spietata guerra. E’ nel contesto di questo conflitto che si muovono i protagonisti di Last Exile, i giovanissimi Claus Valca e Lavie Head, piloti di vanship, una sorta di corrieri aerei. Nelle loro spedizioni capiscono poco alla volta la realtà spietata della guerra e s’imbattono nella misteriosa e temuta Silvana, l’invincibile corazzata che solca i cieli di Prester. In realtà, ben presto si capirà che la Silvana, comandata dal silenzioso e imperscrutabile Alex Row, non è la temibile nave che si crede ma l’ultimo vero baluardo di resistenza contro lo strapotere della Gilda e del maestro Delphine.

Dalla trama si potrebbe pensare che si tratti della solita saga fantascientifica, trita e ritrita, ma basta guardare il primo episodio per ricredersi. Il fascino di Last Exile sta innanzitutto nell’ambientazione, un non meglio identificato futuro, cha ha però connotazioni fortemente retrò, da inizio ‘900. Si va dalle suggestioni irlandesi e celtiche della città di Claus e Lavie, all’iconografia bizantina che domina gli inquietanti personaggi della Gilda, dalle divise e dagli armamenti ottocenteschi degli eserciti di Anatorey e Disith ai caratteri greci delle iscrizioni e dei documenti. Una mescolanza di stili e di epoche, che si traduce in un universo visivo e poetico fortemente originale. Il tratto di Murata si sposa poi perfettamente con le scene di volo e di battaglia in tridimensionale, così come paga la scelta di privilegiare tonalità di accesa luminosità. Su tutto primeggiano gli innumerevoli velivoli, ipertecnologici nelle funzioni e capacità ma antiquati nelle forme: sembra di rivedere Miyazaki e gli splendidi apparecchi aerei di Nausicaa e Porco Rosso. Risulta perfettamente adeguato a questo apparato iconografico il ritmo della narrazione che, se per lo più è lento e contemplativo, improvvisamente s’infiamma durante le splendide battagli aeree e le acrobatiche gare delle vanship, per poi toccare toni di profonda poesia nel finale. E’ grazie ad un contesto così suggestivo che i temi affrontati, per quanto non originalissimi, acquistano uno spessore poetico ulteriore. In fondo Last Exile parla di amore, amicizia, lealtà ed onore, della crudeltà della guerra e dell’ansia di pace, descrive un universo sottoposto ad un controllo rigido e distorto a cui si contrappone la sete di libertà di pochi, un universo non manicheo in cui si muovono personaggi a tutto tondo, problematici, pieni di ansie e paure, di dolori e rimpianti. Perchè Claus è così determinato a superare il Grand Stream? Che cosa spinge veramente Alex a combattere il maestro Delphine? Una reale volontà di libertà e giustizia o un rancore personale? Sophia sceglie di accettare la corona d’imperatrice perchè ha assunto piena consapevolezza delle sue responsabilità o perchè è delusa dall’indifferenza dell’uomo che ama? E perchè Tatiana si mostra così fredda, glaciale, insensibile? Ecco il punto: per tutta la serie noi siamo proiettati negli animi e nelle menti di personaggi veri, vibranti, siamo portati a cercar di capire le motivazioni delle loro scelte e delle loro azioni, ne scopriamo il passato e ne conosciamo i sogni e i tormenti. Ma soprattutto siamo al fianco dei due protagonisti, Claus e Lavie, nel loro lento, incessante processo di maturazione. Alla fine, ci si sente affascinati e appagati dalla visione, di certo più consapevoli dei sottili percorsi del cuore umano.

lunedì 17 novembre 2008

Who Is It_BJORK VIDEOGRAPHY_7

Ancora un estratto da MEDULLA. Questa volta il videomaker è Dawn Shadforth, autore di videoclip per Garbage, Jamiroquai, Kylie Minogue ed altri.

martedì 11 novembre 2008

HERMITAGE di Carmelo Bene

PRIMA PARTE



SECONDA PARTE



TERZA PARTE



(A cura di) Guido Aristarco, Guida al film, Fabbri, Milano, 1979.

Questo film, assolutamente inedito, è importante perché ha il carattere di un vero e proprio manifesto della poetica di Bene. In esso, infatti, sono contenuti, in nuce, i temi, i motivi, lo stile, le tendenze e i rimandi culturali di tutta quanta la sua opera. Data l’inaccessibilità del lettore al film, conviene quindi dar conto, con abbondanza di particolari, degli elementi fabulistici. Ma, prima, un riferimento per così dire filologico: con il titolo Hermitage si conosceva di Bene un racconto pubblicato nel 1967 nel volume "Credito italiano". Tranne piccole varianti, il film ripete quel testo. Unico protagonista, lo stesso Bene. L’azione: una stanza d’albergo, con arredamenti barocchi, rossa, soffocante. C’è un grande specchio inghirlandato e fiori artificiali di uno "stralunato" azzurro, il camino col fuoco acceso, intenso. E c’è la musica di Verdi che ora si sovrappone ora prende il posto dei monologhi dell’attore. All’inizio dell’azione una sorta di "minuetto" con i fiori azzurri più volte ripresi in un montaggio alternato col volto dell’attore. Poi, un picchiettare alla porta e una voce di donna: "Sei tu? Che fai, ti chiudi dentro? Non fare il cretino, aprimi". Apre la porta, si inginocchia, guarda la donna che gli sta di fronte, bellissima, immersa nella luce come intrecciata in aureole. Adesso la vede doppia; la triplica. Ha proprio un che di sacrale, di intangibile. Nel racconto è una che ha sbagliato stanza, si scusa e va via. Nel film va via, in silenzio. L’attore rientra nella camera; siede e, indolente, accende un lunghissimo fiammifero. Poi, dinanzi allo specchio, si toglie il cerone dal volto. Quindi si veste, indossa una vestaglia e, in un rosso vermiglio, assai intenso, torna a guardarsi allo specchio. Scrive una lettera che mette sotto l’uscio della sua stessa stanza; sbircia nel corridoio e, furtivo, rientra. Ancora dinanzi allo specchio, legge la lettera che si è mandata e, mentre la legge, la cinepresa carrella sulla fiamma di una candela, accarezza le immagini vezzose di un arazzo sul muro. Quindi, in dettaglio, la lettera: "Cara, è un divino errare ma destino ti accompagnò alla mia casa...il passato tuo e mio non conta più, quindi devi tornare...credimi tuo". Rilegge l’ultimo brano della lettera e con una matita aggiunge un’asta al "tuo" che così diventa "tua". Si guarda allo specchio e tra ghirlande di fiori azzurri declama: "O duce della mia coorte leggera, non voglio credere ai delitti di cui ti si accusa...Sei troppo bello, è giusto che ti si coroni al cospetto di tutti gli dei. Io non voglio sapere se tu vaneggi. T’amo". Va nella stanza da bagno. Declama: "Perché mi tradisti", mentre, in dettaglio, divampa il fuoco del camino; poi, in primo piano, un’immagine flou della donna, invitante, riflessa nell’acqua della vasca. "Ieri come oggi", dice l’attore, "è la stessa cosa: uccidere la storia per fare contenta sua madre, o uccidere sua madre per fare contenta la storia". E, dopo una convulsione, scrive: "Cara mamma, io sto bene, e tu? Non è facile quanto credevo. Io lavoro. Ora devo lasciarti. Ti abbraccio...". Stringe forte il biglietto e, accartocciandolo, lo fa cadere nel gabinetto: "Basta! È finita con chi mi vuole bene!" dice. Ultima sequenza: ancora la stanza, di un rosso più intenso, cupo. L’attore è seduto e stancamente si versa dello champagne. Beve. La coppa gli scivola dalle mani.

Il nucleo centrale del racconto è costituito dall’ossessiva presenza della madre come unica immagine femminile, e attorno a questo nucleo si articola il simbolismo di chiara matrice freudiana. Se si accetta, infatti, il concetto di Jacques Lacan secondo cui "ciò di cui l’amore fa il suo oggetto è ciò che manca nel reale", si nota come in Bene il desiderio di una "identificazione primaria" con la madre esprima il bisogno di un ritorno all’essere che dà la vita (alla madre, appunto) per ricostituire, con essa e in essa, una "unità originaria", per ricomporre finalmente la propria esistenza dimezzata. Da ciò il gusto del trasformismo, la necessità del travestimento, il bisogno del narcisismo. La donna, infatti, che per errore bussa alla porta della sua camera è subito deificata, trasportata ad altezze mistiche e irraggiungibili, mentre evoca, per la sua stessa natura di donna, l’idea della madre e con essa il desiderio, nel protagonista, d’essere egli stesso madre (il "tuo" della lettera diventa "tua"). La convulsione finale che prende Bene quando, nell’acqua della vasca da bagno immagina riflesso, invitante e sinuoso, il corpo della donna, si placa appena ammette che è tempo di farla finita con chi gli vuole bene; con ogni donna, cioè, che non sia la madre. Da tale impostazione tematica deriva anche una rigorosa scelta stilistica: il barocco, che dà all’opera una struttura che vorrebbe essere "aperta" ma che subito entra in tensione con un certo recupero del "floreale", una specie di "di più" funereo e sovrabbondante; il melodramma dato come accentuazione enfatica a cui corrisponde l’enfasi del recitativo, entrambi utilizzati come elementi dissacranti, fortemente ironici, spie della consapevolezza di chi si sa dominato da una cultura "decadente" a cui tuttavia non può, non vuole sfuggire.

martedì 4 novembre 2008

TO LOST CONTROL



Radio
live transmission
Radio
live transmission
Listen to the silence, let it ring on
Eyes dark, relentless, frightened of the sun
We would have a fine time living in the night
Left a blind instruction,
take away our sight
We would go on as though nothing was wrong
And hide from these days to remain all alone
Staying in the same place,
staring all the time
Touching from a distance, further all the time

Dance, dance, dance, dance,
dance to the radio
And I could call out when the going gets tough
And we could make contact if we just don't look
No language, just sound
is all that I know
We'll synchronize love to the beat of the show
And we could
dance, dance, dance, dance,
dance to the radio