martedì 30 dicembre 2008

ELENCO VISIONI 2008



LUNGOMETRAGGI
CHANGELING di Clint Eastwood
CONTROL di Anton Corbijn
I DON'T WANT TO SLEEP ALONE di Tsai Ming-Liang
IL DESERTO ROSSO di Michelangelo Antonioni
IL GRIDO di Michelangelo Antonioni
INLAND EMPIRE di David Lynch
LA CLASSE di Laurent Cantet
LEVEL FIVE di Chris Marker
MILLENIUM MAMBO di Hou Hsiao-Hsien
NOSTRA SIGNORA DEI TURCHI di Carmelo Bene
PARTNER di Bernardo Bertolucci
PRIMA DELLA RIVOLUZIONE di Bernardo Bertolucci
QUERELLE di Rainer Werner Fassbinder
SANS SOLEIL di Chris Marker

CORTOMETRAGGI
A PROPOS DE NICE di Jean Vigo
ART OF MIRRORS di Derek Jarman
END di Artavazd Pelechian
HERMITAGE di Carmelo Bene
LA CRAVATE di Alejandro Jodorowsky
LA JETéE di Chris Marker
LIFE di Artavazd Pelechian
LIFELINE di Victor Erice
THE SUPER 8 PROGRAMME di Derek Jarman
SIH FIGURES GETTING SICK di David Lynch


SERIE TV
LAST EXILE di Koichi Chigira

VIDEOCLIP
AFTERHOURS - E' solo febbre
BJORK - Declare independence
BJORK - Earth intruders
BJORK - Innocence
BJORK - Oceania
BJORK - Pluto
BJORK - Triumph of a heart
BJORK - Wanderlast
BJORK - Where is the line?
BJORK - Who is it
CHRIS CLARK - Gob coitus
INCUBUS - Here in my room
INCUBUS - Pistola
INCUBUS - Sick sad little world
LE LUCI DELLA CENTRALE ELETTRICA - Per combattere l'acne
MAXIMO PARK - Graffiti
PERTURBAZIONE - Agosto
RADIOHEAD - House of cards

PERFORMANCE
A LIFE IN SUITCASES di Peter Greenaway

sabato 27 dicembre 2008

I DON'T WANT TO SLEEP ALONE di Tsai Ming-Liang



PAESE NATALE, MATERIA PLASTICA di Cyril Neyrat
tratto da Cahiers du Cinéma n° 623 - Maggio 2007 (traduzione di Eugenio Renzi)

Primo piano, accanto ad un uomo disteso su di un letto, una radio portatile diffonde le note di un’opera lirica. I Don’t Want to Sleep Alone è uno dei sette film del progetto New Crowed Hope, vasta iniziativa artistica finanziata dalla città di Vienna per il duecentocinquantesimo anniversario di Mozart (vedi Cahiers n° 618). Qualche piano più tardi, una seconda aria da Il Flauto magico sottolinea il riferimento, furtiva ma tale da mettere il film sotto il doppio segno dell’amore difficile e dell’incantamento melodico. La musica lascia in seguito la grande cultura europea per la canzone popolare asiatica, sfondo sonoro ricorrente, cantato per strada o diffuso alla radio e alla televisione.
Cosa resta di quella tendenza del cinema asiatico, di cui Tsai Ming-Liang fu la testa di ponte in Europa negli anni novanta? Molti film dimenticati in fretta, confusi nella memoria in un medesimo accademismo dai due sintomi ricorrenti: mutismo e formalismo. Tsai stesso è stato sul punto di perdercisi. Se ha saputo riprendere la sua andatura, è stato segnatamente attraverso l’eccesso e la radicalizzazione dei luoghi comuni. Con l’ultra-silenzioso Il Gusto dell’anguria, si arrischiava sul limite di un formalismo da togliere il fiato.
Meno spettacolare, I Don’t Want to Sleep Alone ha la certezza semplice di un nuovo corso. Non una rivoluzione estetica, ma uno spostamento geografico, da Taipei a Kuala Lumpur, basta a modificare gli equilibri. Carica di una gravità e di una nuova necessità politica, sgombera di ogni inflazione formale, la lentezza di Tsai rinuncia al vuoto per riempirsi della durata degli affetti. La vicinanza con Apichatpong Weerasethakul non è soltanto geografica: Tsai, assumendo il suo lato sentimentale, abbandona la sua freddezza da entomologo per portare attenzione agli slanci, via via duri e dolci, dei suoi personaggi.
Un gruppo di immigrati del Bangladesh raccoglie per strada un vecchio materasso sporco, poi un cinese ritenuto morto da una banda di assassini locali. Rawang, un malese che vive con loro in un palazzo lasciato incompiuto dalla crisi, si prende cura di Hsiao Kang e lo rimette in condizione di tenersi in piedi. Nello stesso luogo vive Chyi, giovane cinese impiegata dalla padrona di un ristorante e incaricata di curare il figlio di questa, l’uomo in coma del primo piano. Hsiao Kang diventa l’oggetto del desiderio di Rawang, di Chyi e della sua padrona, la circolazione del materasso accompagna così quella degli affetti. Dopo sette film realizzati a Taiwan, Tsai ha girato quest’ultimo nel suo paese d’origine. Ne Il Gusto dell’anguria, aveva svuotato Taipei dei suoi abitanti e trasformato la capitale nella scenografia di una commedia musicale, popolata soltanto di alcune coreografie colorate.
Il popolo non è cancellato dalle strade di Kuala Lumpur: spaesare il proprio cinema e ritornare al proprio paese natale, è anche per Tsai un modo di ritrovare un’iscrizione più realista nella società contemporanea. Il popolo discute, chiacchiera nelle scene di gruppo. In contrappunto, il mutismo dei personaggi non appare più come un partito preso stilistico, ma come un modo d’essere, attributo di una condizione sociale: solitudine, noia, difficoltà a comunicare quando non si parla la stessa lingua. Questo popolo non è un’astrazione, ma il sottoproletariato cosmopolita di lavoratori immigrati, venuti in Malesia approfittando del boom economico e in seguito privati dell’impiego dalla crisi economica della fine dei Novanta. Molto più del titolo internazionale, che sottolinea in maniera fallace l’intrigo sentimentale, il titolo originale cinese insiste sull’intenzione politica e sull’iscrizione locale. Hei Yan Quan significa «occhi cerchiati d’oro» o «gli occhi dal burro d’oro». L’espressione designa lo stato nel quale Rawang ritrova Hsiao Kang, ma fa anche allusione ad uno scandalo politico malese. Nel 1999, il vice-primo ministro Anwar era stato condannato e imprigionato, segnatamente per sodomia. Durante il processo, un materasso era stato presentato come prova a carico, e l’accusato era apparso con gli occhi cerchiati, conseguenza delle violenze poliziesche. Per molto tempo, Tsai ha cercato un attore indiano o bangladese per il ruolo di Rawang, e aveva scritto le scene di sesso tra Hsiao Kang e lui. Essendo l’attore un malese, e l’omosessualità tabù presso i musulmani, ha dovuto rinunciare a queste scene. Resta il materasso, ricordo dello scandalo e dell’ingiustizia, oggetto di transizione burlesca dei rapporti amorosi. La radio, voce grottesca della propaganda consumistica, vuole convincere della necessità di cambiarlo regolarmente.
Rawang, Hsiao Kang e Chyi dovranno adattarsi al loro, sporco e infestato, per soddisfare i propri desideri e, a misura della sua circolazione, disegnare lo schizzo di una comunità. Perché, lungi dall’esser vano, il gioco burlesco dell’immobilità e del movimento, dell’inerzia e della circolazione dei corpi e degli oggetti, fa passare da delle solitudini alienate alla possibilità di una relazione, dalle cellule separate ad un frammento di mondo comune. La comprensione dei luoghi da parte dello spettatore è in funzione delle relazioni tra i personaggi. Ognuno sembra vivere in uno spazio autonomo, senza rapporti con l’altro fino alla rivelazione dell’unità topografica. Non si comprende che a metà strada che gli spazi di Chyi e di Rawang sono contigui, che essi abitano lo stesso palazzo: quando, incontrando la giovane nelle scale, Hsiao Kang cerca di rimorchiarla con il doppio gesto di un regalo, dei fiori elettronici di plastica, e di una spinta che versa il liquido delle tazze sul vassoio che lei porta al piano di sopra. Ne Il Gusto dell’anguria, l’aridità era una bella idea. L’acqua improvvisamente cessava di sgorgare, chiusa e imprigionata nelle bottiglie di plastica. Cuori secchi, mondo senz’altro amore che il sesso meccanico e feticista del porno e delle angurie. Segno di una volgarizzazione della favola in I Don’t Want to Sleep Alone, l’acqua torna a sgorgare, senza perciò inondare. Tsai coniuga i suoi due stati: corrente nella casa, stagnante nel grande bacino trasformato nel tempo di un piano in un lago dove Rawang finge di pescare, sognando forse la campagna della sua infanzia, quella dove è nato Tsai. In questo piano come altrove, l’incanto non si sostituisce alla noia quotidiana attraverso una decisione dell’autore: appartiene ai personaggi di addolcire la loro esistenza, di scegliere l’inerzia o il gioco. Resistere alla dittatura degli oggetti, vuol dire profanare il loro uso. Rawang ama bere delle bibite colorate in delle saccocce di plastica. Ad una di esse attribuisce delle proprietà taumaturgiche, e si intestardisce a porla sulla fronte di Hsiao Kang ammalato. Verde, rosso... giallo: la burla cade nella scatologia quando Tsai si attarda sulla saccoccia di plastica dove si riversano le urine del comatoso. Le saccocce di liquido giocano in tono minore la partizione musicale: forme e immagini di un mondo fittizio e feticista, distorte e rilanciate nella circolazione giocosa dei simboli.
Così come alla carne e agli umori dei corpi, il sensualismo di Tsai si aggrappa alle materie fredde del mondo contemporaneo: cemento degli immobili e dei corridoi, ma soprattutto plastica delle bottiglie, dei sacchi, dei fiori finti offerti a Chyi. Quando un gigantesco incendio spande un fumo spesso nella città e costringe gli abitanti a portare delle maschere di protezione, la plastica sale sui visi: a causa della penuria di maschere, i più poveri, tra cui Rawang e Hsiao Kang, utilizzano dei sacchi del supermercato. Gioia della farsa: Hsiao Kang e Chyi tentano di fare l’amore con le proprie maschere, le tolgono per baciarsi e finiscono per rinunciare, frustrati dai colpi di tosse. L’anguria era un frutto poco credibile: anche quando autentica, aveva l’aria di essere sintetica. Spingendo più in là quest’intuizione, Tsai arriva al punto di rappresentarsi l’incubo di un’umanità di plastica. Un primo piano impressionante si attarda sulla testa dell’uomo in coma durante la sua toletta: la maniera in cui Chyi gli insapona il viso e i capelli con i guanti sulle mani dà i brividi, i movimenti e le cure che questi producono creano la sensazione fisica della plastica.
A questa scena di agghiacciante umanità, succede la sua variante umana, ai gesti meccanici di Chyi quelli di Rawang, dolci e applicati, mentre si prende cura di Hsiao Kang paralizzato dal pestaggio. Anche qui, sensualismo delle materie: alla luminosità fredda e cruda della scena precedente si oppone quella ovattata, vista attraverso il velo che Rawang ha tirato come una gabbia protettiva intorno al materasso. Per spiegare il doppio ruolo interpretato da Lee, Tsai propone di vedere la storia di Hsiao Kang come il sogno di un malato. Altra ipotesi: il malato come un incubo di Hsiao Kang, o come l’immagine dello stadio terminale di un’umanità di plastica trasparente. Che vede se non il suo doppio, l’immagine di un divenire possibile? Il fumo completa il quadro di un mondo apocalittico. Tsai dialettizza il disegno attraverso una costante reversibilità dei segni, che porta all’opposto di ogni nostalgia dell’autenticità. Come il velo rosa, il fumo giallo attenua la freddezza e l’inerzia del mondo, diventa una nebbia del possibile nella quale il materasso diventato zattera va alla deriva, idea di un mondo possibile per il trio di amanti. Contro i pessimisti del viaggio e i relativisti della globalizzazione, Tsai ricorda che andare altrove è ancora un' esperienza da cui tirar profitto. Un materasso, dei sacchi di plastica, i gesti di lavoratori immigrati: i segni sono lì per chi voglia vederli. Hanno due facce, per tenere insieme un racconto il corpo politico e l’ombra sentimentale.

lunedì 15 dicembre 2008

LYNN FOX: il corpo, il bit e la poesia

LYNN FOX: VIDEOMUSICA DIGITALE
di Alessandro Amaducci (da TURIN D@MS REVIEW)

Lynn Fox è una sigla dietro la quale si celano tre artisti inglesi che sono usciti recentemente alla ribalta nel mondo videomusicale entrando nella stretta cerchia di coloro che riescono a coniugare sperimentazione e mercato, producendo videoclip non banali ad alto contenuto tecnologico e dallo stile fortemente riconoscibile.

Dal punto di vista stilistico il gruppo si muove seguendo due tracce piuttosto differenti tra loro, probabilmente due percorsi appartenenti a membri diversi del gruppo. Il primo, quello più fortemente caratterizzante, usa la grafica 3D per inventare spazi e strutture geometriche affascinanti e sinuose, con forti richiami alla grafica Art Nouveau, creando architetture impossibili, leggere e sospese, mentre in altri casi la computer grafica ridisegna spazi sottomarini dominati da creature luminose e trasparenti, e quindi dalla ricerca sulle forme astratte si passa al fotorealismo digitale un po’ più tradizionale, sebbene sempre molto raffinato. Il secondo percorso stilistico si poggia invece tecnologicamente su un interessante uso delle tecniche di compositing digitale, e parte da un lavoro di ricerca sull’immagine del corpo e delle sue trasformazioni (tappa oramai obbligata per tutti i registi di videoclip impegnati, o costretti, a dover raffigurare il musicista-performer) figlio di tanta videoarte, di quella body-art “estrema” molto in voga in questi anni, e della tradizione visiva, oramai possiamo chiamarla così, consolidata da registi “maledetti” come Chris Cunningham.

Per quello che riguarda la computer grafica 3D sicuramente le opere più interessanti sono quelle realizzate per gli Incubus, gruppo per il quale Lynn Fox hanno avuto la fortuna di poter fare a meno di visualizzare i membri, potendo così creare delle opere audiovisive autonome. Nel videoclip Pistola le pagine di una sorta di taccuino di disegni infantili e irriverenti vengono animati in modo intelligente e tecnicamente interessante, con una commistione di 2D e 3D (in realà anche il 2D è gestito da software 3D) per cui i disegni prendono forma, si muovono, escono dalle pagine e conquistano la terza dimensione, ovvero, d’accordo con una sorta di ossessione di chi lavora in 3D, vengono osservati da tutti i punti di vista, per cui la camera virtuale ruota intorno agli oggetti. Un altro elemento di interesse è una certa libertà di montaggio, per cui la parte visiva non segue direttamente la ritmica della musica, ma la contrappunta seguendo un percorso più svincolato.

Questi elementi caratterizzanti si sviluppano al meglio in un altro videoclip sempre per il gruppo musicale Incubus, che è il capolavoro di Lynn Fox: Sick Sad Little World. L’inizio del video ha un intento dichiaratamente autoriale: mentre la musica cresce e ritmicamente si sviluppa, a livello visivo una forma semiorganica arancione cresce lentissimamente. La divaricazione fra audio e video crea un effetto ipnotico e spiazzante. Fino ad un certo punto il video sembra finire lì: la crescita di un organismo monocellulare. Ma all’improvviso, e questa volta in accordo con la musica, si apre un mondo di figure femminili semiumanoidi: dei corpi fatti di architettura, leggeri, dall’esoscheletro fragile come gli insetti, mentre intorno a loro volute di costruzioni immaginarie creano un universo di curve e piani semitrasparenti che si intersecano. Il rischio di diventare barocchi è vicino, ma i Lynn Fox lo corrono volentieri, anche perché la musica a volte entra in accordo con questo tipo di immaginario, a volte si allontana, creando consonanze e dissonanze. Questo mondo di donne-farfalla è minacciato dall’esterno: infatti arrivano aerei e carri armati, sempre però visualizzati con tratti stilistici da disegno architettonico (queste figure sono modelli che si sono intravisti anche nel videoclip precedente). La guerra che ne segue non si capisce fino a che punto sia una battaglia o un accoppiamento, sta di fatto che anche in questa fase del videoclip gli occhi dello spettatore sono inondati di forme organiche che esplodono, luci, colori. L’intelligenza di Lynn Fox sta nell’evitare lo standard fotorealistico al quale siamo abituati a favore della ricerca di uno stile e di un’atmosfera visiva.

La coerenza stilistica del gruppo fa sì che anche quando la volontà è di creare ambienti fotorealistici, si cerca, in un qualche modo, una realtà “trasparente”, come il mondo sottomarino e i suoi pesci luminosi: è il caso di Nature is ancient per Bjork, artista musicale attenta alla ricerca visiva e che rappresenta un vero e proprio “caso” a cavallo fra la musica elettronica e l’arte contemporanea, un videoclip dove, forse per la prima volta, il corpo della musicista non c’è, o meglio viene evocato sotto forma di feto solo alla fine, dopo una carrellata di immagini di organismi cellulari dentro un mondo intrauterino ma immaginario, costellato anche di creature minacciose e sanguinarie. L’ultima immagine, Bjork in versione feto luminoso, è densa di citazioni divertite: ovviamente 2001 Odissea nello spazio di Stanley Kubrick ma anche il videoclip di Michael Stern Teardrop, realizzato per i Massive Attack.

Ovviamente, come si diceva prima, il corpo è un elemento importante sul quale giocare laddove la computer grafica non è la protagonista del video, ma piuttosto il compositing e le elaborazioni digitali di elementi ripresi dal vero. È il caso di Pluto, sempre per Byork, in questo caso non un vero e proprio videoclip ma un supporto visivo da sfondo per i suoi concerti, dove un uomo nudo e calvo in uno spazio vuoto e scuro compie una serie di movimenti convulsi fino a “scoppiare” e diventare una sorta di albero fatto di doppi del suo corpo. Le assonanze con operazioni come Flex o Rubber Johnny di Chris Cunningham qui sono evidenti, ma in ogni caso Lynn Fox dimostrano autonomia stilistica e maggior controllo della tecnologia. Sempre su questo versante altrettanto riuscito è Gob Coitus per il d.j. targato Warp Chris Clark: un videoclip che attraversa in maniera esemplare le due linee stilistiche di Lynn Fox. In una specie di garage sotterraneo un uomo lentamente si trasforma in una creatura a metà fra l’umano e l’insettiforme, compiendo evoluzioni e volando come se fosse una vespa impazzita. E se anche, come in questo caso, il gruppo di architetti cerca quelle atmosfere “malate” piuttosto di moda oggi, ricorrendo ad un tipo di fotografia e di montaggio oramai piuttosto connotati, riescono comunque ad essere originali e riconoscibili. Più vicino al loro stile rarefatto e sinuoso è Unravel, uncora una volta per Bjork, dove la musicista islandese è collegata ad uno suo doppio che è un corpo-ectoplasma sospeso nel vuoto. Il “cordone ombelicale” che unisce le due figure è collegato al corpo di Bjork ad una sorta di piccola “bio-porta” di peluche blu, doppia citazione dell’opera di Meret Oppenheim e, ovviamente, di ExistenZ di David Cronemberg.

Un piccolo discorso a parte meritano invece quei videoclip dalla struttura più tradizionale, dove comunque Lynn Fox riescono ad infondere qualcosa del loro particolare stile: e questo è la prova più evidente della capacità autoriale del gruppo. In Graffiti, per i Maximo Park, il gruppo viene messo dentro un stanza che ruota: dato che la camera è fissata l’effetto è che ci siano degli “scherzi gravitazionali” sui corpi delle persone. È un effetto che oramai affascina molti registi (lo si potrebbe chiamare “effetto Kubrick”) e che ha delle chiare assonanze, di nuovo, con 2001 Odissea nello spazio, nonostante (ma questo crea anche un contrasto divertente), le atmosfere in questo caso non siano affatto spaziali, ma molto sixties. Un altro videoclip molto interessante è Bitten per i D.O.G., dj di stampo hip hop, genere pericolosissimo per qualsiasi regista di videoclip. Anche in questo caso, Lynn Fox riescono felicemente a superare gli stilemi classici del genere e realizzano un video con un finto piano sequenza (in realtà c’è un lavoro molto accurato di postroduzione che nasconde i tagli), dove la soggettiva della telecamera, e lo sguardo a cui ipoteticamente appartiene, vengono sottoposti a violenze di ogni genere: tecnicamente è il video più complesso e interessante del gruppo di architetti inglesi.


INCUBUS - Pistola




INCUBUS - Sick Sad Little World




INCUBUS - Here in my room




BJORK - Pluto




CHRIS CLARK - Gob Coitus




MAXIMO PARK - Graffiti

martedì 9 dicembre 2008

Oceania_BJORK VIDEOGRAPHY_8

Ancora un estratto da MEDULLA. Questa volta il video è diretto da LYNNFOX, una sigla dietro la quale operano tre artisti inglesi (di loro parleremo nel prossimo post).

lunedì 1 dicembre 2008

CHANGELING di Clint Eastwood



Mariuccia Ciotta (il Manifesto, 14 Novembre 2008)

«Noi faremo delle strade di Los Angeles il nostro tribunale permanente e abbatteremo gli assassini sul campo. Non voglio che mi consegnino vivo nessuno di questi uomini, li voglio morti, e punirò ognuno dei miei che mostrerà la minima pietà per quei criminali». A parlare non è Dirty Harry nel film di Clint Eastwood The Changeling, ma il capo della polizia James «Two Guns» Davis, che comandava la Lapd (L.A. Police Department) nel 1928, agli ordini del sindaco-sceriffo George E. Cryer. Storia vera, poliziotti e politici veri. Ed è «la verità la virtù più importante del pianeta» dice il regista, che ha prodotto e composto le musiche del più dark dei suoi film, più di Million Dollar Baby (Oscar 2004). Le lettere da Iwo Jima questa volta portano il timbro di Los Angeles. La «mezzanotte nel giardino del bene e del male» richiama lo spirito di Christine Collins (Angelina Jolie) che alla vigilia della Depressione fu al centro di un caso che sconvolse la città e che rimase sepolto tra le polvere dell'archivio del Los Angeles Times, prima che arrivasse nelle mani di Eastwood.
La maschera bianca di Angelina Jolie, bocca come un segnale rosso sangue, è stagliata nella penombra. Il suo sguardo cambierà dall'epoca delle presidenze Coolidge e Hoover, i liberisti del «laissez faire» che scatenarono i più forti contro tutte le Christine Collins, fino all'attualità dell'America di oggi. Lavorava in un call-center degli anni Venti la donna che tornando a casa non trovò più il figlio Walter di 9 anni. Scomparso, rapito. Dopo pochi mesi la polizia le riconsegnò un bambino che diceva di essere Walter, ma non lo era. Da qui Eastwood riprende i fili di Mystic River, dal giorno del Columbus Day per scatenare tutta la sua potenza di fuoco sulla «perdita dell'innocenza» di un paese alla ricerca di qualcuno che si ribelli. Mai il cineasta di San Francisco, che il 31 maggio compie 78 anni, è andato così dritto al cuore, mai la sua radiografia dell'America è stata così spietata. Il corpo leggero di Christine Collins si muove nel labirinto degli orrori, che nessun Ellroy saprà descrivere, una polisinfonia di generi che passano uno nell'altro senza cesure, dal dramma familiare allo splatter, dal poliziesco, al thriller, al cinema politico, a quello manicomiale in un percorso ipnotico che evoca ogni gioiello hollywoodiano, passato e futuro.
Il bambino, dunque, non è Walter, ma il poliziotto J.J. Jones violentemente insiste, accusa Christine di essere una folle madre snaturata e la fa rinchiudere in un ospedale psichiatrico senza autorizzazione e senza processo, in applicazione del «Codice 12», che permetteva di internare le persone «difficili». La gente amava gli happy-end e la Lapd che dal '28 ad oggi non ha cambiato reputazione, pessima, voleva incassare il successo del bimbo ritrovato. Esecuzioni di notte contro i muri di Los Angeles, prigionieri mitragliati stile Al Capone, cadaveri buttati nei canali, Clint ci dà un quadro d'insieme di chi ha scritto sulla divisa «Proteggere e servire».
L'età dell'oro di Hollywood si sgretola, come negli Spietati l'epopea del West. Tram rossi percorrono surreali la città degli angeli da Pasadena a Santa Monica, dall'estremo nord all'oceano, prima dello smantellamento del servizio pubblico. Eastwood li ricorda quand'era bambino e il padre, girovago della Depressione, lavorava a una pompa di benzina. Tram elettrici che portano Christine Collins dalla vita normale al lettino dell'elettroshock, brutalizzata, umiliata, drogata perché ha osato contraddire la polizia. Quel figlio non è suo, continua a ripetere. E The Changeling va verso il Samuel Fuller di Shock Corridor e il gelo mortale dei trattamenti psichiatrici di Titicut Follies di Wiseman. Tutto in un film, ghiacciata apocalisse, sulla forma morale dei resistenti alle ingiustizie, come il pastore presbiteriano Gustav A. Briegleb (John Malkovich) militante del pulpito, che aiuta Christine e dalla sua stazione radio rivela gli abusi della Lapd. L'enigma della scomparsa del piccolo nasconde un capitolo horror, l'abuso sui bambini, e Clint ci fa assistere a una carneficina fuori campo con il serial-killer Gordon Stewart Northcott (Jason Butler Harner), che fa a pezzi con l'accetta le vittime dei suoi sequestri. Una fattoria in mezzo al nulla e l'indicibile sacrificio umano, compiuto con l'aiuto di un ragazzino forzato a uccidere, che poi confesserà tutto. Ecco, il condannato ideale da mandare a morte, il pedofilo assassino. E ancora Eastwood ci accompagna in un altro girone dell'inferno, sotto la forca, dove in diretta il pervertito macellaio sarà impiccato. «True crime», il vero crimine che ci riguarda. Insieme ai famigliari dei bambini uccisi, assistiamo agli ultimi istanti dell'uomo incappucciato che canta Silent Night, una canzone di Natale. Struggente, intollerabile sequenza per «ritrovare una certa pace interiore», se siete a favore della pena capitale. «Di quale pace parlate? - si chiede Eastwood - Dopo uno spettacolo simile, quale tranquillità sperate di ritrovare? È per questo che ho voluto filmare questa scena con il più grande realismo, il rumore del collo che si spezza quando il corpo oscilla nel vuoto, i piedi che si agitano al momento dell'agonia... è insopportabile da vedere, ed è questo l'effetto che cercavo». Nella realtà, Northcott fu condannato all'ergastolo.
Walter non fu mai ritrovato, ma la madre cercò ancora e la parola «speranza» è l'ultima pronunciata da Angelina Jolie. Christine Collins aveva insegnato al figlio a essere gentile con gli altri, e Walter probabilmente fu ucciso dal maniaco perché tornò indietro a salvare un compagno di fuga. E lei, che pensava di lottare solo per il suo bambino, si ritrovò a combattere per l'abolizione del «Codice 12», per la condanna del capo della polizia e per la caduta del sindaco. Dopo verrà Franklin Delano Roosevelt, un «new deal».
Un manifesto poetico-politico, cinema classico e futuribile, visione di quel che non vediamo. Illuminato magnificamente di ombre da Tom Stern, direttore della fotografia di quasi tutto Eastwood, il film è stato finanziato dall'Universal e, tra gli altri, da Ron Howard, assente invece la Warner Bros, che accoglie da sempre gli Studios della Malpaso. The Changeling non ha vinto la Palma d'oro 2008 (sarebbe stata la prima volta di Clint) ed è stato recensito tiepidamente perché privo, dicono, dell'ambiguità eastwoodiana. Eppure la luce accecante del film è più inquietante di ogni ombra.

domenica 23 novembre 2008

LAST EXILE di Koichi Chigira











Alla scoperta dei cieli
di Aldo Spiniello (da Sentieri Selvaggi)

Ha un fascino tutto particolare questo Last Exile, serie animata in 26 episodi, diretta dal regista Koichi Chigira (già impegnato in Gatekeepers, Blue Submarine no. 6 e Full Metal Panic). Si tratta di una delle ultime creazioni dello studio Gonzo e rappresenta un’ennesima tappa nell’utilizzo combinato della computer graphic in 3D e dell’animazione tradizionale in 2D (il character designer è lo stesso di Blue Submarine, Range Murata).

Siamo in un mondo immaginario, in cui l’acqua è un bene raro e prezioso ed esiste una fonte d’energia misteriosa, la Claudia. A gestire l’utilizzo di questa energia e a conservare il patrimonio della conoscenza tecnologica è una potente organizzazione, la Gilda (The Guild), che, attraverso le sue regole ferree e grazie al potere misterioso e incomprensibile dell’Exile, esercita il controllo su Anatorey e Disith, i due regni di Prester. Separati da una zona di forte turbolenza, il Grand Stream, i due regni sono impegnati da tempo in una spietata guerra. E’ nel contesto di questo conflitto che si muovono i protagonisti di Last Exile, i giovanissimi Claus Valca e Lavie Head, piloti di vanship, una sorta di corrieri aerei. Nelle loro spedizioni capiscono poco alla volta la realtà spietata della guerra e s’imbattono nella misteriosa e temuta Silvana, l’invincibile corazzata che solca i cieli di Prester. In realtà, ben presto si capirà che la Silvana, comandata dal silenzioso e imperscrutabile Alex Row, non è la temibile nave che si crede ma l’ultimo vero baluardo di resistenza contro lo strapotere della Gilda e del maestro Delphine.

Dalla trama si potrebbe pensare che si tratti della solita saga fantascientifica, trita e ritrita, ma basta guardare il primo episodio per ricredersi. Il fascino di Last Exile sta innanzitutto nell’ambientazione, un non meglio identificato futuro, cha ha però connotazioni fortemente retrò, da inizio ‘900. Si va dalle suggestioni irlandesi e celtiche della città di Claus e Lavie, all’iconografia bizantina che domina gli inquietanti personaggi della Gilda, dalle divise e dagli armamenti ottocenteschi degli eserciti di Anatorey e Disith ai caratteri greci delle iscrizioni e dei documenti. Una mescolanza di stili e di epoche, che si traduce in un universo visivo e poetico fortemente originale. Il tratto di Murata si sposa poi perfettamente con le scene di volo e di battaglia in tridimensionale, così come paga la scelta di privilegiare tonalità di accesa luminosità. Su tutto primeggiano gli innumerevoli velivoli, ipertecnologici nelle funzioni e capacità ma antiquati nelle forme: sembra di rivedere Miyazaki e gli splendidi apparecchi aerei di Nausicaa e Porco Rosso. Risulta perfettamente adeguato a questo apparato iconografico il ritmo della narrazione che, se per lo più è lento e contemplativo, improvvisamente s’infiamma durante le splendide battagli aeree e le acrobatiche gare delle vanship, per poi toccare toni di profonda poesia nel finale. E’ grazie ad un contesto così suggestivo che i temi affrontati, per quanto non originalissimi, acquistano uno spessore poetico ulteriore. In fondo Last Exile parla di amore, amicizia, lealtà ed onore, della crudeltà della guerra e dell’ansia di pace, descrive un universo sottoposto ad un controllo rigido e distorto a cui si contrappone la sete di libertà di pochi, un universo non manicheo in cui si muovono personaggi a tutto tondo, problematici, pieni di ansie e paure, di dolori e rimpianti. Perchè Claus è così determinato a superare il Grand Stream? Che cosa spinge veramente Alex a combattere il maestro Delphine? Una reale volontà di libertà e giustizia o un rancore personale? Sophia sceglie di accettare la corona d’imperatrice perchè ha assunto piena consapevolezza delle sue responsabilità o perchè è delusa dall’indifferenza dell’uomo che ama? E perchè Tatiana si mostra così fredda, glaciale, insensibile? Ecco il punto: per tutta la serie noi siamo proiettati negli animi e nelle menti di personaggi veri, vibranti, siamo portati a cercar di capire le motivazioni delle loro scelte e delle loro azioni, ne scopriamo il passato e ne conosciamo i sogni e i tormenti. Ma soprattutto siamo al fianco dei due protagonisti, Claus e Lavie, nel loro lento, incessante processo di maturazione. Alla fine, ci si sente affascinati e appagati dalla visione, di certo più consapevoli dei sottili percorsi del cuore umano.

lunedì 17 novembre 2008

Who Is It_BJORK VIDEOGRAPHY_7

Ancora un estratto da MEDULLA. Questa volta il videomaker è Dawn Shadforth, autore di videoclip per Garbage, Jamiroquai, Kylie Minogue ed altri.

martedì 11 novembre 2008

HERMITAGE di Carmelo Bene

PRIMA PARTE



SECONDA PARTE



TERZA PARTE



(A cura di) Guido Aristarco, Guida al film, Fabbri, Milano, 1979.

Questo film, assolutamente inedito, è importante perché ha il carattere di un vero e proprio manifesto della poetica di Bene. In esso, infatti, sono contenuti, in nuce, i temi, i motivi, lo stile, le tendenze e i rimandi culturali di tutta quanta la sua opera. Data l’inaccessibilità del lettore al film, conviene quindi dar conto, con abbondanza di particolari, degli elementi fabulistici. Ma, prima, un riferimento per così dire filologico: con il titolo Hermitage si conosceva di Bene un racconto pubblicato nel 1967 nel volume "Credito italiano". Tranne piccole varianti, il film ripete quel testo. Unico protagonista, lo stesso Bene. L’azione: una stanza d’albergo, con arredamenti barocchi, rossa, soffocante. C’è un grande specchio inghirlandato e fiori artificiali di uno "stralunato" azzurro, il camino col fuoco acceso, intenso. E c’è la musica di Verdi che ora si sovrappone ora prende il posto dei monologhi dell’attore. All’inizio dell’azione una sorta di "minuetto" con i fiori azzurri più volte ripresi in un montaggio alternato col volto dell’attore. Poi, un picchiettare alla porta e una voce di donna: "Sei tu? Che fai, ti chiudi dentro? Non fare il cretino, aprimi". Apre la porta, si inginocchia, guarda la donna che gli sta di fronte, bellissima, immersa nella luce come intrecciata in aureole. Adesso la vede doppia; la triplica. Ha proprio un che di sacrale, di intangibile. Nel racconto è una che ha sbagliato stanza, si scusa e va via. Nel film va via, in silenzio. L’attore rientra nella camera; siede e, indolente, accende un lunghissimo fiammifero. Poi, dinanzi allo specchio, si toglie il cerone dal volto. Quindi si veste, indossa una vestaglia e, in un rosso vermiglio, assai intenso, torna a guardarsi allo specchio. Scrive una lettera che mette sotto l’uscio della sua stessa stanza; sbircia nel corridoio e, furtivo, rientra. Ancora dinanzi allo specchio, legge la lettera che si è mandata e, mentre la legge, la cinepresa carrella sulla fiamma di una candela, accarezza le immagini vezzose di un arazzo sul muro. Quindi, in dettaglio, la lettera: "Cara, è un divino errare ma destino ti accompagnò alla mia casa...il passato tuo e mio non conta più, quindi devi tornare...credimi tuo". Rilegge l’ultimo brano della lettera e con una matita aggiunge un’asta al "tuo" che così diventa "tua". Si guarda allo specchio e tra ghirlande di fiori azzurri declama: "O duce della mia coorte leggera, non voglio credere ai delitti di cui ti si accusa...Sei troppo bello, è giusto che ti si coroni al cospetto di tutti gli dei. Io non voglio sapere se tu vaneggi. T’amo". Va nella stanza da bagno. Declama: "Perché mi tradisti", mentre, in dettaglio, divampa il fuoco del camino; poi, in primo piano, un’immagine flou della donna, invitante, riflessa nell’acqua della vasca. "Ieri come oggi", dice l’attore, "è la stessa cosa: uccidere la storia per fare contenta sua madre, o uccidere sua madre per fare contenta la storia". E, dopo una convulsione, scrive: "Cara mamma, io sto bene, e tu? Non è facile quanto credevo. Io lavoro. Ora devo lasciarti. Ti abbraccio...". Stringe forte il biglietto e, accartocciandolo, lo fa cadere nel gabinetto: "Basta! È finita con chi mi vuole bene!" dice. Ultima sequenza: ancora la stanza, di un rosso più intenso, cupo. L’attore è seduto e stancamente si versa dello champagne. Beve. La coppa gli scivola dalle mani.

Il nucleo centrale del racconto è costituito dall’ossessiva presenza della madre come unica immagine femminile, e attorno a questo nucleo si articola il simbolismo di chiara matrice freudiana. Se si accetta, infatti, il concetto di Jacques Lacan secondo cui "ciò di cui l’amore fa il suo oggetto è ciò che manca nel reale", si nota come in Bene il desiderio di una "identificazione primaria" con la madre esprima il bisogno di un ritorno all’essere che dà la vita (alla madre, appunto) per ricostituire, con essa e in essa, una "unità originaria", per ricomporre finalmente la propria esistenza dimezzata. Da ciò il gusto del trasformismo, la necessità del travestimento, il bisogno del narcisismo. La donna, infatti, che per errore bussa alla porta della sua camera è subito deificata, trasportata ad altezze mistiche e irraggiungibili, mentre evoca, per la sua stessa natura di donna, l’idea della madre e con essa il desiderio, nel protagonista, d’essere egli stesso madre (il "tuo" della lettera diventa "tua"). La convulsione finale che prende Bene quando, nell’acqua della vasca da bagno immagina riflesso, invitante e sinuoso, il corpo della donna, si placa appena ammette che è tempo di farla finita con chi gli vuole bene; con ogni donna, cioè, che non sia la madre. Da tale impostazione tematica deriva anche una rigorosa scelta stilistica: il barocco, che dà all’opera una struttura che vorrebbe essere "aperta" ma che subito entra in tensione con un certo recupero del "floreale", una specie di "di più" funereo e sovrabbondante; il melodramma dato come accentuazione enfatica a cui corrisponde l’enfasi del recitativo, entrambi utilizzati come elementi dissacranti, fortemente ironici, spie della consapevolezza di chi si sa dominato da una cultura "decadente" a cui tuttavia non può, non vuole sfuggire.

martedì 4 novembre 2008

TO LOST CONTROL



Radio
live transmission
Radio
live transmission
Listen to the silence, let it ring on
Eyes dark, relentless, frightened of the sun
We would have a fine time living in the night
Left a blind instruction,
take away our sight
We would go on as though nothing was wrong
And hide from these days to remain all alone
Staying in the same place,
staring all the time
Touching from a distance, further all the time

Dance, dance, dance, dance,
dance to the radio
And I could call out when the going gets tough
And we could make contact if we just don't look
No language, just sound
is all that I know
We'll synchronize love to the beat of the show
And we could
dance, dance, dance, dance,
dance to the radio

domenica 26 ottobre 2008

PETER GREENAWAY_A Life in Suitecase. A History of Tulse Luper

Ieri sera ho assistito a Bari alla splendida performance di Peter Greenaway dal titolo "A life in suitecases. A history of Tulse Luper". Il regista si è esibito in un vj set su dodici schermi, accompagnato dalla musica di DJ Radar. Di seguito alcuni filmati per darvi un'idea.





mercoledì 22 ottobre 2008

LAURENT CANTET: conversazione a proposito di "La classe"

Un estratto dell'intervista realizzata da Sentieri Selvaggi con Laurent Cantet in occasione della retrospettiva completa dedicatagli dalla Cineteca di Bologna alcuni giorni fa.

domenica 19 ottobre 2008

Triumph of a heart_BJORK VIDEOGRAPHY_6



Ancora un estratto da MEDULLA

Il video è diretto da Spike Jonze, regista di Essere John Malkovich e Il ladro di orchidee, e autore di videoclip per Sonic Youth, REM, Daft Punk, Chemical Brothers, Beastie Boys e molti altri.

martedì 14 ottobre 2008

LA CRAVATE di Alejandro Jodorowsky



opera prima di Alejandro Jodorowsky
girata nel 1957
perduta e ritrovata di recente
ispirata all'omonima opera di Thomas Mann

venerdì 10 ottobre 2008

giovedì 9 ottobre 2008

DEREK JARMAN_The Super 8 Programme



L’arte dell’ombra e dello specchio. E’ spesso difficile distinguere i diversi super 8 girati da Jarman nell’arco di quindici anni. La ragione risiede nel fatto che il cinema a passo ridotto del pittore-cineasta inglese è un crogiuolo cui attingere continuamente per nuove fusioni che originano a loro volta altri film, proprio come le trasmutazioni che avvenivano nei secoli scorsi in un gabinetto di alchimia. Singole immagini o intere sequenze trasmigrano infatti da un’opera all’altra, modificate, ricolorate, rifotografate, sovrimpresse le une alle altre, assecondando così la logica di un cinema “expanded” in tutti i sensi. Il parallelo con il processo alchemico non è solo una metafora, In the Shadow of the Sun – come spiega bene O’Pray – allude alla pietra filosofale e si basa proprio su un libro di Gratacolle William del 1652, nonché sul simbolismo junghiano. Ma al di là dei riferimenti magico-simbolici, in questo tipo di produzione, la più libera e pura di Jarman anche rispetto ai lungometraggi narrativi, la composizione è inseparabile dalla tecnica. Vale a dire che tutto sommato il vero soggetto del film è proprio il tipo di procedimento adottato, il medium è la tecnica stessa. A parte Journey to Avebury – l’unico costituito quasi esclusivamente da inquadrature fisse caratterizzate da un filtro giallo – i film che proponiamo si basano sull’elemento della sovrimpressione, usato per la prima volta da Jarman in The Garden of Luxor (1972). E’ piuttosto scontato rilevare come i super 8 rappresentino un territorio di passaggio dalla pittura al cinema. Il trasferimento di alcuni motivi, soggetti e procedimenti da un medium all’altro, è dimostrato dal citato film su Avebury – che tra l’altro potrebbe essere accostato, se ci riferiamo all’ambito del cinema sperimentale britannico dei primi anni ’70, ai cosiddetti landscape film di Raban, Welsby, Sercombe, ecc. – da cui Jarman trae nello stesso periodo una serie di fotografie. Nei super 8 la riduzione di velocità nel dispositivo di ripresa/proiezione assimila l’immagine filmica a quella pittorica. Il colore si raggruma nell’inquadratura, si solidifica, diventa materia che si modella nella luce e nella durata. Ma l’artista non si accontenta di un semplice ralenti, il suo scopo è di ripensare totalmente la natura temporale del cinema. Jarman obbliga lo spettatore ad un particolare atteggiamento percettivo di fronte ai suoi cortometraggi, stimolando una riflessione sul rapporto tra la posa e il movimento. Modificando la scansione dei fotogrammi, Jarman ritrasforma nuovamente il cinema in fotografia, suo medium primigenio. Da un altro punto di vista, dunque, i super 8 di Jarman generano un momento di riflessione sul binomio cinema/fotografia: Stolen Apples for Karen Blixen è un esperimento ancora più esplicito in questo senso, poiché il cineasta crea doppie esposizioni di immagini in movimento su due foto della scrittrice. Qualcosa di simile avviene nel lunare Ashden's Walk on Møn, in cui Jarman lascia come sfondo su cui “incrostare” altre immagini, la fotografia di una nebulosa. Sovrimpressione vuol dire instabilità della visione, piacere nel far convivere più immagini contemporaneamente da cui scaturiscono nuove associazioni, significati, percezioni. La sovrimpressione si avvicina tecnicamente alla visione onirica. La sovrimpressione è come un’ombra, un’ombra particolare che solo il cinema (insieme alla fotografia) può creare. L’altro elemento che permette la convivenza di più immagini dentro la stessa inquadratura è lo specchio. Ma in The Art of Mirrors Jarman non ci mostra l’immagine specchiata, si serve di questo strumento per mettere in scena un rituale magico e surreale: un uomo in smoking attraversa lo schermo con uno specchio che rimanda riflessi verso l’obiettivo della cinepresa. Poi lo specchio passa nelle mani di una donna in abito da sera e cappello nero piumato che si avvicina poco alla volta allo spettatore, come ipnotizzandolo. Una scena stile anni ’20 che ci riporta al dadaismo di un Man Ray e al surrealismo un po’ mitico di Cocteau. L’ombra e lo specchio – come ha scritto Victor Stoichita – sono due elementi che hanno avuto non poca importanza nella storia della pittura occidentale. E Jarman questo lo sa bene. Altri rituali, più complessi, li ritroviamo in quello che forse è il capolavoro dell’era a passo ridotto di Jarman: In the Shadow of the Sun. I tasti di una macchina da scrivere; un uomo che scatta alcune fotografie; il fuoco che brucia e si sovrappone a figure umane di spalle, volti, paesaggi filtrati; un uomo con un candelabro avanza, poi batte le mani; una persona col cappuccio bianco avanza tra le dune di sabbia; la sagoma di una pianta; un signore con il cappello a cilindro; infine ecco la morte, un cranio scheletrico che spicca su un ampio vestito bianco. Sono alcuni frammenti figurativi, presenze fantasmatiche che affiorano da una texture in continua trasformazione. La suggestiva sinfonia alchemica di Jarman è dominata soprattutto dal fuoco, elemento-chiave in cui confluiscono tutti gli altri: dal luccichio dell’acqua che sembra neve, alla nube gassosa della parte finale. Il tutto accompagnato dalla straordinaria musica dei Throbbing Gristle, fatta di riverberi metallici e ondulazioni sonore. Una musica liquida e ipnotica che sottolinea perfettamente gli echi antichi e moderni, classici e sperimentali di cui si nutre l’arte cinetica di Jarman.

Bruno Di Marino (dal dvd edito dalla Rarovideo)

domenica 5 ottobre 2008

QUERELLE di Rainer Werner Fassbinder

Locandina del film ad opera di Andy Warhol



Recensione dell'edizione dvd edito dalla RHV di Alessandro Izzi da www.close-up.it

Presentato al Festival del Cinema di Venezia a pochi giorni dalla morte dell’autore, Querelle resta una delle opere più affascinanti e più controverse di tutto il cinema di Fassbinder.
Possente riflessione sul rapporto ambiguo tra sessualità e potere (tema questo condiviso col capolavoro pasoliniano Salò o le 120 giornate di Sodoma), il film è diventato, col tempo, una delle pellicole più invisibili, almeno in Italia, del cinema tedesco contemporaneo.
Prima di questa necessaria edizione curata (non a caso) dalla sempre più meritoria Ripley's Home Video, l’ultima opera del regista monacense poteva vantare una sola edizione domestica: un supporto VHS che ricalcava fedelmente la stessa edizione “minor” che era uscita a ridosso del Festival veneziano e che i distributori italiani avevano provveduto a tagliare di circa otto minuti ritenuti offensivi del comune senso del pudore.
Raramente un taglio censorio era stato così lesivo dell’integrità e del senso ultimo di un’opera come nel caso di Querelle. Le piccole porzioni di testo eliminate, infatti, erano parti integranti di un disegno quanto mai complesso ed unitario e la loro eliminazione comportava, alla fine, un notevole stravolgimento sia del significato che della definizione psicologica dei personaggi che è, nell’edizione “minor”, decisamente più sfocata e meno incisiva.
Ad essere principalmente colpita dalle forbici dei censori era stata, comunque, (e non c’era, in fondo di che stupirsi) la scena della sodomizzazione di Querelle. Una scena, questa, sicuramente impensabile nel contesto dell’italietta cattolica e moralista contemporanea, ma che era dotata, nelle intenzioni del regista, di un possente senso drammaturgico e di una precisa coerenza interna. In questa scena, portata avanti con un insospettato lirismo, si fa strada, infatti, tutto il senso ultimo del personaggio, tutto il suo desiderio di autoimmolazione soprattutto dopo il terribile delitto compiutosi appena qualche fotogramma prima. Nemesi e catarsi al tempo stesso, punizione e disperato anelito ad una vitalità sfrontata e necessaria, il modo in cui Querelle si concede all’"altro" ha qualcosa di sfuggente e al tempo stesso cristallino. Un elemento poetico che sublima la pura e semplice consumazione di un atto sessuale e lo pone al centro di un discorso che è prima di tutto espressione di una consapevole sconfitta sia interiore che esteriore, la storia di un fallimento, l’inizio di una via crucis tutta personale che porta il personaggio ad un confronto costante con le dinamiche del potere (nel suo ambiguo rapporto con il capitano) e con se stesso e le sue contraddittorie pulsioni.
L’edizione “minor” che taglia la scena in modo brutale, inserendo a conclusione il breve inserto di un primo piano di Brad Davis che è il palese ingrandimento di un dettaglio della composizione finale dei due corpi, ottiene in fondo l’esatto contrario di quanto era nelle sue intenzioni. Elimina e chiude in un ellissi l’atto sessuale, ma lo priva al tempo stesso della sua tenerezza e rabbia trasformandolo, nella mente di uno spettatore che è obbligato ad immaginare quanto accade tra un taglio di montaggio e l’altro, in un brutale semplice atto di libidine. Il personaggio finisce, così, per assumere quei tratti immorali che gli erano ingiustamente applicati da quella bigotta mentalità italiana che non aveva saputo cogliere la tragedia da sacra rappresentazione che respirava sotto il fascino barocco delle immagini. La censura finiva per ottenere così un risultato inaspettato: tagliando il film finiva per trasformarlo in ciò che aveva voluto vederci. Nello stesso modo, a pensarci, in cui un inquisitore seicentesco finiva per trasformare un’innocente contadina in strega.
Ora finalmente, grazie alla meritoria operazione di restauro della RHV diventa davvero possibile riaccostarsi al vero Querelle e rendersi conto dell’enorme senso etico che ne permea ogni fotogramma.
Un’opera destinata per sua natura allo scandalo (perché non c’è vera poesia e vera rivoluzione senza scandalo) che meriterebbe finalmente la sua giusta considerazione anche in Italia.



LA QUALITA' AUDIO-VIDEO
Film girato interamente in studio e caratterizzato da un’illuminazione innaturale, tutta dominata da rossi fiammeggianti (quasi a rendere anche a livello fotografico la dimensione melò del tutto), Querelle offre non poche resistenze al passaggio dalla fruizione in sala all’home cinema.
L’edizione che stiamo esaminando riesce, comunque, incredibilmente, a limitare tutti i danni che, come acquirenti ancora memori della passata edizione VHS, in fondo, ci aspettavamo. La resa dell’immagine si mantiene, quindi, sempre piacevole ed è evidente una certa padronanza delle scarse, ma abbondantemente sfumate gamme di colori (tra ocra, arancione e rosso) utilizzate dal regista.
Anche su un piano prettamente sonoro il risultato è al di sopra delle aspettative con due tracce su due canali che ben spaziano il suono nell’ambiente. Del resto un suono prevalentemente frontale è certo una scelta necessaria per un melodramma così raffreddato che si pone in una dimensione così “altra” nei confronti di uno spettatore che va certo scosso, ma non troppo coinvolto a livello acustico. La scelta è tra l’originale inglese e l’italiano che riprende quello dell’edizione "minor". Per le scene reintrodotte nel film resta, quindi, per scelta fortemente filologica, il solo inglese sottotitolato.



EXTRA
Oltre all’illuminante booklet realizzato, come di consueto per titoli del Nuovo Cinema Tedesco, dal nostro Giovanni Spagnoletti, c’è spazio sul disco per una serie di interventi interessanti e abbastanza esaustivi.
La parte del leone è tutta per una breve intervista a Franco Nero realizzata appositamente per questa edizione DVD che ci mette a contatto con aspetti meno noti, ma sempre interessanti sulla realizzazione del film nonché sul rapporto peculiare e stranissimo che si era venuto a creare tra il regista e la sua star italiana. Non manca il consueto trailer. E, a mò di curiosità, per chi non avesse già acquistato la serie Wenders sempre editata dalla RHV, c’è il piccolo intervento/intervista sul cinema a Fassbinder che era parte integrante del corto wendersiano Chambre 666.

martedì 16 settembre 2008

David Foster Wallace meets David Lynch

Cosa succede quando un genio ne incontra un altro? La comparsa su PREMIERE, nell'ormai lontano 1996, di un saggio di importanza capitale quale DAVID LYNCH KEEPS HIS HEAD di David Foster Wallace

di Luca Pacilio (tratto da www.spietati.it)



A volte ciò che serve per entrare appieno in qualcosa è una prospettiva anomala, anticonvenzionale, del tutto trasversale che, indicando una via alternativa a quella analitico-valutativa, permetta di impadronirsi completamente di quel qualcosa. Nel caso del "weirdworld" di David Lynch tale visuale ci è offerta da un saggio scritto per PREMIERE nel 1996 da colui che senza dubbio alcuno è il più geniale, versatile e esplosivo talento dell'odierna letteratura americana, quel David Foster Wallace dalle cui mille e passa pagine di INFINITE JEST - torrenziale, massimalista, divertente, doloroso, scritto da dio, il romanzo che ti inchioda ed è il peggior nemico del tuo bisogno di dormire - non riesco e non voglio staccarmi da un po' di tempo. Il suo DAVID LYNCH KEEPS HIS HEAD non è una disamina critica sul cinema di David Lynch; ci troviamo di fronte a uno spaccato intimo-sensazionale che riesce, con la precisione e la lucidità sbalorditiva che abbiamo imparato essere congeniale allo scrittore in questione, a cogliere di quel cinema alcuni aspetti salienti. Nel 1995 Wallace è autorizzato a visitare il set di STRADE PERDUTE e vi si aggira per tre giorni. La visita non è solo l'occasione per la descrizione del work in progress del regista ma anche per la libera e fluente digressione di un fan sull'opera del suo cineasta preferito.



Che quello di Wallace non sia un lavoro critico ce lo riferiscono alcune considerazioni orgogliosamente schierate e che diremmo quasi ingenue se non sapessimo di stare a leggere una sorta di (esagero? esagero) novello Proust (ma eterosessuale, americano e postmoderno) che sa maledettamente il fatto suo. Ecco che se un Enrico Ghezzi (che di Lynch ha scritto tanto e ne sa come pochi) dice di DUNE in perfetto "critichese": Lynch proietta la visione oltre ciò che è dato vedere. Non è più questione di forme comunque spietate e perfette. La narrazione è una maschera. DUNE viene tagliato e "funziona" (...). Con emozione assistiamo a un dipanarsi senza fine, più intricato della saga di GUERRE STELLARI e meno necessitato, sfogliamento di un volume della visione, scultura più pittura più movimento, Wallace risponde con un perentorio DUNE, del 1984, è indiscutibilmente il film peggiore della carriera di Lynch, ed è bruttarello forte. Questo per capirsi subito: Wallace è uno che di critica cinematografica ne legge (nel paragrafo 7 dal titolo PEZZETTO CONCLUSIVO DEL PAR.6, USATO PER PROSEGUIRE IN UN RAPIDO RITRATTO DELLA GENESI DI LYNCH COME AUTORE EROICO scrive Che lo riteniate un autore valido o meno, la sua carriera dimostra che lui è davvero, nel senso letterale dei CAHIERS DU CINEMA, un "auteur", pronto a fare in nome del pieno controllo creativo quei sacrifici che i veri "auteurs" devono fare - scelte che indicano o un furioso egotismo, o una dedizione appassionata, o un desiderio infantile di essere il capo del cortile, o tutte e tre) ma se è analisi e digressione ponderata che cercate, questo saggio vi serve a poco. Per quello c'è l'indispensabile lavoro di Michel Chion, DAVID LYNCH, vera bibbia di qualunque lynchiano doc (senza dimenticare l'agile e sintetico Castoro di Riccardo Caccia che è anch'esso apprezzabile). Ma se volete una volta tanto prescindere da un'indagine minuziosa di singole sequenze (pensiamo alla scomposizione debitamente maniacale che Chion attua su THE GRANDMOTHER, vero capolavoro occulto del cineasta) e penetrare nel mondo del grande regista per osservarlo con lo sguardo privilegiato di un uomo che sente le cose e ha l'incredibile dono di saper tradurre quel suo sentire in parole, Wallace è il vostro uomo e lo scritto in questione è ciò di cui non potete fare a meno. Certo, lo scrittore si avventura anche nel campo della trattazione, non lesinando in comparazioni, ma il tutto avviene, mantenendo il consueto spessore, con grande leggerezza.



Godibilissimo in particolare il raffronto che fa col cinema di Tarantino nel paragrafo 9 (LA SFERA D'INFLUENZA DEL LYNCHIANISMO NEL CINEMA CONTEMPORANEO): il cerotto sulla nuca di Marcellus Wallace in PULP FICTION - inspiegato, visivamente incongruo, e mostrato in bell'evidenza in tre diverse situazioni - è Lynch allo stato puro. Anche in questo caso DFW fa una considerazione che potrebbe apparire quasi scontata ma che scontata non è (anche se alcuni, e mi ci metto dentro senza modestia, perchè è la verità, l'hanno avanzata da subito): il fenomeno commerciale che risponde al nome di Mr. Quentin Tarantino non esisterebbe senza David Lynch come modello di riferimento, senza l'insieme di codici e contesti che Lynch ha portato nel profondo del cervello dello spettatore, concludendo la sua digressione con un finissimo paragone tra la rappresentazione della violenza nel cinema dell'uno e dell'altro per poi postillare con la sezione 9a (UN MODO MIGLIORE DI METTERE QUELLO CHE HO APPENA DETTO): A Quentin Tarantino interessa guardare uno a cui stanno tagliando un orecchio; a David Lynch interessa l'orecchio. Lasciatemi applaudire. Nella sezione 8 (CHE SIGNIFICA LYNCHIANO E PERCHE' E' IMPORTANTE) Wallace scrive "come postmoderno o pornografico, lynchiano è una di quelle parole (...) che si possono definire solo ostensivamente, cioè lo capiamo quando lo vediamo (...) Un recente omicidio avvenuto a Boston, in cui il diacono di una chiesa di South Shore è partito all'inseguimento di un veicolo che gli aveva tagliato la strada, lo ha fatto uscire di strada, e ha sparato al conducente con la balestra a lunga gittata, era al limite del lynchiano". E più avanti: Per me la decostruzione, come avviene nei film di Lynch, di questa "ironia del banale" ha influenzato il modo in cui vedo e strutturo mentalmente il mondo. Dal 1986 ho notato che un buon 65% della gente che vedi al capolinea degli autobus in città fra mezzanotte e le sei del mattino tende ad avere i requisiti tipici delle figure lynchiane. Per concludere con un'impressionante intuizione (alla luce della scena sul taxi di M.D. della coppia di anziani che Betty ha conosciuto in aereo e che ne sembra l'esemplificazione postuma): ho stabilito che un'espressione facciale improvvisa e grottesca non può essere definita veramente lynchiana se non nel caso in cui l'espressione sia mantenuta per qualche momento in più di quanto le circostanze potrebbero giustificare.
Non starò a riferire quanto ameno sia (e ameno è dir poco: siamo a passeggio nei viali alberati della Letteratura) il suo parlare delle giornate sul set di un film, LOST HIGHWAY, di cui non sa molto, avendone solo intravisto il copione, seguito poche scene, visto sprazzi di giornalieri ma a cui dedica alcune fulminanti considerazioni. Nel paragrafo 6b, NUMERO APPROSSIMATIVO DI MODI IN CUI SEMBRA CHE "STRADE PERDUTE" SI POSSA INTERPRETARE (All'incirca 37), Wallace dice: è impossibile stabilire se STRADE PERDUTE sarà un fiasco alla DUNE o un capolavoro del calibro di VELLUTO BLU, o una via di mezzo fra i due, o cosa. L'unica cosa che sento di poter dire con totale sicurezza è che il film sarà: lynchiano.



Ci sono altri passi (ma, lo ripeto, il saggio dello scrittore è imperdibile nella sua totalità) che meritano di essere menzionati. Nel paragrafo 10 (SULLA QUESTIONE DEL SE E IN CHE SENSO I FILM DI DAVID LYNCH SIANO "MALATI") Wallace tocca alcuni punti scottanti e riesce a spiegare (non avendone l'intenzione specifica) perchè i film di Lynch siano così inquietanti e perturbanti. L'esempio di Jeffrey, il protagonista di VELLUTO BLU interpretato da Kyle Mac Lachlan, diventa elemento disvelante del perverso, arcano fascino delle pellicole del regista, sottolineando come non sia affatto il personaggio di Frank (Dennis Hopper) e la sua malvagità, la sua perversione, la violenza che usa su Dorothy (la Rossellini) a turbarci, ma il fatto che lo stesso Jeffrey (voyeur effettivo e metaforico di quelle aberrazioni) ne sia sostanzialmente attirato e eccitato: niente mi fa sentire male quanto vedere sullo schermo alcune delle parti di me che sono andato a cinema per cercare di dimenticare. Lo scrittore non manca di sottolineare come i film del Nostro, nell'abbondanza di simboli, figure archetipe e riferimenti intertestuali, tutti elementi, e questo è il punto, sfrontatamente palesi, possiedono quella considerevole mancanza di autoanalisi che è una specie di marchio di fabbrica dell'arte espressionista - nessuno nei film di Lynch, fa analisi, critiche metatestuali, tentativi ermeneutici o cose del genere.(...) VELLUTO BLU coglieva qualcosa di fondamentale che non poteva essere analizzato o ridotto a un sistema di codici, principi estetici, o tecniche narrative da laboratorio di scrittura; caratteristica, questa della mancanza di pretenziosità e del tono diretto e immediato di Lynch e di VELLUTO BLU in particolare, messa in luce molto bene anche da Chion (la forza di Lynch rispetto a molti altri cineasti è in primo luogo quella di non aver paura di essere letterale, e che i suoi eroi passino per quei poveri di spirito che non sono. Così si spinge molto in là sul piano simbolico) e che non va mai persa di vista, ingenerandosi altrimenti il ricorrente equivoco di Lynch-autore-banale laddove banale (ma della banalità del non sottostimabile ovvio), nei film del regista, può essere senz'altro il rappresentato ma mai - ciò che importa - la rappresentazione. Ma quello che è forse il merito maggiore dell'articolo di DFW è il dissipare un equivoco in cui credo moltissimi siano caduti con quella come con altre opere di Lynch (la serie TWIN PEAKS e FUOCO CAMMINA CON ME, tanto per cominciare). Si ritiene generalmente che in questi lavori Lynch penetri nel cuore lercio di una situazione, svelando il marcio che si nasconde dietro la patina della tranquilla vita cittadino\borghese. Wallace, con semplicità commovente ci dimostra che questo è solo un luogo comune e come le cose stiano in modo diverso (inquietantemente diverso); leggendo le parole che seguono è davvero difficile non dargli ragione: L'idea di "segreti" e di "forze malvagie all'opera al di sotto" ci piace tanto anche perchè ci fa piacere vedere confermate le nostre fervide speranze nel fatto che la maggior parte delle cose malvagie e torbide siano per davvero segrete, "rinchiuse" da qualche parte, o "sotto la superficie". Speriamo con tutto il cuore che la cosa stia così perchè abbiamo bisogno di credere che le nostre stesse brutture e Oscurità siano segrete. Altrimenti restiamo a disagio. E, come membro del pubblico, se un film è costruito in maniera tale da incasinare la distinzione tra superficie/Luce/buono e segreto/Oscuro/cattivo - in altre parole, se non possiede una struttura per cui Oscuri Segreti vengono portati ex machina in Superficie, alla Luce per essere purificati dal mio giudizio, ma piuttosto una struttura in cui Superfici Rispettabili e Profondità Torbide sono mescolate, integrate fra loro, letteralmente confuse - io verrò messo intensamente a disagio. E per reazione a questo disagio, farò una di queste due cose: o troverò un modo per punire il film per avermi messo a disagio, o troverò un modo per interpretarlo che elimini il più possibile quel disagio. Avendo passato in rassegna le pubblicazioni sul cinema di Lynch, posso assicurarvi che praticamente tutti i critici di riconosciuta professionalità hanno scelto l'una o l'altra di queste reazioni. E più avanti, a proposito della serie Tv TWIN PEAKS: La vera insoddisfazione profonda - quella che fece sentire il pubblico buggerato e tradito, e innescò la reazione violenta dei critici contro la nozione di Lynch come Autore Geniale - fu, secondo me, di tipo morale. Io sostengo che il fatto di aver rivelato esaurientemente i "peccati" di Laura Palmer richiedeva, secondo la logica morale dell'entertainment americano, che le circostanze della sua morte risultassero legate a quei peccati da un nesso causa-effetto (...). Nel momento in cui questo non accadde, e quando cominciò a diventare sempre più chiaro che non sarebbe mai accaduto, gli indici di ascolto di TWIN PEAKS precipitarono, e i critici cominciarono a lamentare il declino nell' "autoreferenzialità" e nell' "incoerenza manierata" di questa serie tv, un tempo "audace" e "ricca di immaginazione".



Alla luce di quanto detto risulta quasi superfluo riferire del tenero panegirico che lo scrittore riserva a Lynch-artista-senza-compromessi nella sezione 16a (PERCHE' CIO' CHE DAVID LYNCH VUOLE DA TE POTREBBE ESSERE QUALCOSA DI BUONO) ma ancora una volta la trasparenza del discorso wallaciano, la sua immediatezza, il suo sublime entusiasmo risultano avvincenti e inevitabilmente contagiosi; dopo aver ammesso il disagio che le pellicole del regista suscitano nel loro mischiare le carte, nel loro orgoglioso solipsismo, estremo fino all'incomunicabilità assoluta (l'ultima parte di M.D. ne è solo l'ultima dimostrazione), DWF esprime un argomento (già anticipato nella citazione ad apertura della mia recensione di M.D.) che lancia a chi si ostina a non capire che il capire non c'entra e che il "non mi piace perchè non lo capisco" è una posizione acritica e quella sì davvero incomprensibile (e mi si scusi il multiplo gioco di parole): bisogna riconoscere che in quest'epoca di film hollywoodiani "col messaggio", proiezioni in anteprima riservate a target specifici, e pernicioso botteghinismo - un Cinema Plebiscitario, in cui votiamo con i nostri soldi di spettatori per effetti spettacolari che ci facciano provare emozioni, o per lallazioni di cliché moralistici che non ci scomodino dal nostro confortevole torpore - il disinteresse quasi sociopatico che mostra Lynch verso la nostra approvazione sembra una ventata d'aria fresca. Si spiega, alla luce di quanto sopra, l'atteggiamento di rispetto che lo scrittore dimostra per quello che è il più controverso e sottovalutato film del regista, FUOCO CAMMINA CON ME, generalmente e ingiustamente massacrato, in realtà opera chiave della sua filmografia; lavoro suicida, certo, ma proprio per questo di strepitoso coraggio, grande buco nero che in sé risucchiava dubbi manieristici (WILD AT HEART) e sospetti commerciali (la serie TWIN PEAKS) avanzati fatuamente da più parti, per puntare verso tutt'altre direzioni, nuove e, neanche a dirlo, misteriose. Insomma Wallace non trascurando nulla si tiene lontano dall'aplomb critico e descrive con verve e sensibilità quello che il cinema di Lynch scatena nel suo cervello. Perché, come detto nel paragrafo 11 (...COSA DAVID LYNCH SEMBRA VOLERE DA TE, ESATTAMENTE): questo potrebbe essere il vero obiettivo di Lynch: entrarti in testa. Di sicuro sembra che penetrare nella tua testa gli importi di più di che cosa fare una volta lì dentro.

lunedì 15 settembre 2008

La morte non è la fine



La primavera è al culmine, e gli alberi e i cespugli sono carichi di foglie, di un verde e di una immobilità intensi, in un complesso gioco d'ombre, il cielo assolutamente azzurro e immobile, tanto che l'intero quadro racchiuso di piscina e pavimento e poeta e sedia e tavolo e alberi e facciata posteriore della casa è assolutamente immobile e calmo e sfiora il silenzio più assoluto, unici rumori il debole gorgoglio dell'acqua pompata e scaricata dalla piscina e di quando in quando il rumore del poeta che si schiarisce la gola e gira le pagine di "Newsweek" - non un uccello, niente falciatrici tagliasiepi trinciaerba in lontananza, niente jet sopra la testa né lontani rumori attutiti dalle piscine delle case ai lati della casa del poeta, nient'altro che il respiro della piscina e la gola del poeta schiarita di tanto in tanto, assolutamente immobile e calmo e racchiuso, neanche un alito di brezza a muovere le foglie degli alberi e delle siepi, il silenzioso vivo a racchiudere il verde immobile della flora vivido e ineluttabile e senza uguali al mondo né per come si presenta né per quanto evoca.*

*Questo non è del tutto vero.

David Foster Wallace, Brevi interviste con uomini schifosi, Einaudi, pp.6-7 (trad. Ottavio Fatica e Giovanna Granato).

venerdì 5 settembre 2008

PRIMA DELLA RIVOLUZIONE di Bernardo Bertolucci



PRIMA DELLA RIVOLUZIONE (1963)

Regia, soggetto e sceneggiatura: Bernardo Bertolucci

Aiuto regia: Gianni Amico

Direttore fotografia: Aldo Scavarda

Fonico: Romano Pampaloni

Montaggio: Roberto Perpignani

Con: Adriana Asti, Francesco Barilli, Allen Midgette, Morando Morandini, Cristina Pariset

Musica: Ennio Morricone

Canzoni: “Ricordati”, “Vivere ancora”, composte e cantate da Gino Paoli; “Avevo 15 anni”, composta e cantata da Ennio Ferrari



Chi non ha vissuto gli anni prima della rivoluzione non può capire che cosa sia la dolcezza del vivere (Talleyrand)



Sono una pietra, non cambierò mai. Ho la febbre: la nostalgia del presente, ma il mio futuro da borghese è nel mio passato da borghese. Così, per me, l’ideologia è stata una vacanza. Credevo di vivere gli anni della rivoluzione, invece vivevo gli anni prima della rivoluzione, perché è sempre prima della rivoluzione che si è sempre come me..



"Prima della rivoluzione uscì a Parigi durante l’inverno tra il ’67 e il ’68, ed ebbe un grande successo. Proiettato al Cinéma d’art e d’essay fece qualcosa come 300.000 entrate. I ragazzi sentivano dire quello che loro pensavano in quel momento. Così ho vissuto il ’68.” (B. Bertolucci)

lunedì 1 settembre 2008

IL GRIDO di Michelangelo Antonioni



Vito Zagarrio, Messi in scena, Ragusa, Libroitaliano, 1996, pp. 127-128, 132-136.

Il grido è un film mobile, un film in viaggio: verso gli anni ‘60, verso la definizione di una poetica, verso una ridefinizione della condizione e della cultura moderna, verso la società della tecnologia avanzata e del boom. In viaggio attraverso la storia, storia degli anni ‘50 e della nuova società di massa italiana, storia delle costanti forti dell’ideologia, delle rappresentazioni collettive, dei miti culturali ed economici emergenti. Ma viaggio anche attraverso il microcosmo del delta padano, su tutte le strade e con tutti i mezzi possibili, un’autocisterna del nuovo petrolio italiano, o il pulmann che va ad Adria e Goriano. Un film on the road, dunque, in molti sensi: fatto di passaggi, di autostop, di inseguimenti, di motociclette e sidecars, lunghi viaggi in autobus e carretti, corse di motoscafi, peregrinaggi a piedi, lo stesso fiume che sta lì, immobile come una grande strada d’asfalto. Ma anche un film in viaggio, travelling su una strada cominciata anni, o forse ere, prima, ma poco distante, la statale Ferrara-Padova su cui Gino e Giovanna hanno consumato amore e morte in Ossessione. Il grido, dunque, in viaggio verso gli anni ‘60 e oltre, da Ossessione a Professione: reporter, in inglese significativamente The Passenger. Road movie , lo chiama tout-court Withcombe in The New Italian Cinema, uno dei già numerosi libri americani dedicati al cinema italiano.
Non a caso, Il grido è stato il primo film di Antonioni ad essere distribuito in America. Cronaca di un amore e La signora senza camelie sono arrivati solo alla fine degli anni Sessanta. Non a caso, dico, perché Il grido è un film che, oggi, può apparire “americano”, al di là dello stereotipo dei generi. Americano come è americano Wenders, americano come lo è il protagonista di Alice nella città, anche lui viaggiatore perplesso, con una bambina, occhi nuovi su uno strano pianeta in attesa di una nova.
Americano come è americano Ossessione, che Il grido cita espressamente, scena madre con cui il film di Antonioni si misura e si interroga quasi alla maniera di un film saggio.
Ripercorrendo i tragitti culturali, le mappe geografiche e ideologiche del progetto Ossessione, Antonioni riallaccia il romanzo europero alla narrativa americana; il nuovo régard al vecchio mito che Antonioni praticava nelle sue scritture su «Cinema».
L’impressione che si ricava rivedendo Il grido oggi è che Antonioni riesca ad anticipare il dibattito della critica di venti anni, che riesca a leggere Ossessione in chiave non-neorelistica, che ne faccia emergere, forse inconsapevolmente, tutti i lati - la tradizione culturale, il milieu sociale, il background mitologico, l’intervento sul reale storico - che meno fanno parte della nozione di neorealismo così come essa ha preso corpo e forma mitica dopo Rossellini e De Sica-Zavattini. In questo senso, il viaggio de Il grido verso Ossessione è anche un viaggio lontano dal neorealismo fatto scuola, modello, standard. Tanto più perché viene da lontano, viene dalle elaborazioni e suggestioni del ‘43-’48 di Gente del Po, film girato “sull’altra sponda del Po”, ma convergente e complementare, rispetto a Ossessione, sulla stessa riva poetica, sullo stesso spartiacque. Viene dal '54, prima della realizzazione de Le amiche, prima, se si vuole accettare una data convenzionale, della “crisi” del neorealismo. E viene realizzato in piena crisi del movimento e della scuola, in un momento storico estremamente intenso, la metà degli anni Cinquanta, la rifondazione dei partiti come partiti di massa e la nuova consapevolezza del mutato tessuto sociale del paese, gli indizi del boom, l’Ungheria, le tensioni ideologiche de Le ceneri di Gramsci. Da Ossessione a Il grido c’è tutta la storia, messa in atto delle premesse, ascesa e crisi del neorealismo, o meglio di un quindicennio di cinema italiano. E Antonioni ne prende atto, registra nascita e morte - del genere come del genere umano - come una delle silenziose catastrofi di cui sono popolati i suoi film. Catastrofi o epifanie, ne Il grido, sono l’incidente o suicidio come liberazione, come salto nel vuoto di un iperspazio, spazio nuovo della conoscenza e della sensibilità; la manifestazione di piazza contro la nuova pista aerea militare - che contiene e contrappunta il ritorno di Aldo -, Goriano come Comiso, in un’atmosfera postmoderna popolata di sopravvissuti, in un clima da dopoguerra mondiale (seconda o terza?) denso di nebbie padane e di fumi catastrofici; la tensione interna delle sequenze, sempre in ansia, sempre in attesa, di un evento di svolta, alla singola inquadratura o alla sequenza intera.
Ma alle catastrofi, Aldo - e Antonioni - assistono con occhio distaccato, assente, automatico; come da automa, da zombie è l’espressione e il gesto di Aldo poco prima di lasciarsi cadere dalla torre, prima di lasciarsi morire. E la m.d.p. è lo spettatore freddo, l’osservatore distante, non ironico però, ma attento e partecipe, con rispetto se non con affetto.
La m.d.p. de Il grido infatti non è mobile all’eccesso come i personaggi, le situazioni, i capitoli della multitrama del film. In un travel film - viaggio straordinario all’interno di un fazzoletto di terra, all’interno di un manoscritto e di una bottiglia di vetro, viaggio tra piccole stazioni dove il tempo e lo spazio però si dilatano - in un travel film, dicevo, ci sono pochi travelling shots, le mobilità americane dei carrelli, delle gru e dei dolly sono limitate e sobrie. Al loro posto, un’osservazione da lontano, ma accurata, determinata. Non un pedinamento sull’uomo, non uno sbirciare dal buco della serratura alla Zavattini, ma una contemplazione nobile che tutto riporta alle razionalità matematiche di un classicismo rinascimentale. Il ritmo e l’armonia del dramma quotidiano.
Prendiamo le sequenze iniziali, dai titoli di testa al primo interno della casa di Irma; vero e proprio inizio della storia.
Nella forma di ripresa e nel montaggio delle inquadrature c’è un ritmo preciso, da solfeggio musicale: Cl., m.d.p. fissa, pausa, panoramica a destra; C1., m.d.p. fissa, pausa, panoramica a sinistra; C1., campo fisso, panoramica. I personaggi appaiono, la m.d.p. sembra accorgersi di loro un attimo in ritardo, poi li segue in modo quasi spietato, ma solo girandosi sul suo asse, solo voltando la testa. Non si sposta, non si commuove, non si avvicina il piano della m.d.p. e dello spettatore. I personaggi determinano il campo con il loro movimento e non è, viceversa, la macchina. Tranne in pochi casi la m.d.p. è un occhio freddo che registra la realtà. Una realtà, però, volutamente artefatta, volutamente messa in scena.
«Il soggetto de Il grido mi venne in mente guardando un muro» - scrive lapidario Antonioni... - «Londra 1952. Un vicolo cieco. Case di mattoni anneriti. Un paio di persiane dipinte di bianco. Un fanale. Un tubo di grondaia verniciato di rosso, molto lucido. Una motocicletta coperta da un telo, perché piove. Voglio vedere chi passerà da questa strada che ricorda Charlot. Mi basta il primo passante. Voglio un personaggio inglese per questa strada inglese. Aspetto tre ore e mezza. Il buio comincia a disegnare il tradizionale cono di luce del fanale quando me ne vado senza aver visto nessuno. Io credo che questi piccoli fallimenti, questi vuoti, questi aborti di osservazione, siano tutto sommato fruttuosi. Quando ne abbiamo messi insieme un bel po’, non si sa come, non si sa perché, viene fuori una storia. Il soggetto de Il grido - appunto - mi venne in mente guardando un muro».
Nella sequenza iniziale c’è la stessa forma di osservazione, o di aborto di osservazione, personaggi per una strada del Polesine, sotto vuoto e nella nebbia come fosse quella Londra borghese, in attesa di un avvenimento, di una catastrofe. Che può essere una donna che lascia un uomo per un altro uomo; oppure una grande alluvione. Ma le catastrofi sono anche positive, come le morti. «Speriamo - dice un vecchio che si affaccia alla porta di Irma - che anche questa alluvione diventi bella grossa, come quell’altra, che ha portato via un po’ di vecchio e portato un po’ di nuovo».
È la morale apocalittica del vecchio alla porta, registrata anch’essa come fatto quotidiano, in maniera candida e illuminata. Con la naivéte incantata degli occhi di Rosina, o del vecchio-bambino, ed anche con il cinismo disincantato del borghese, dell’illuminista, del tardo rinascimentale.
«Pensate un numero, raddoppiatelo, triplicatelo, elevatelo al quadrato. E cancellatelo. Sono sicuro che potrebbero diventare il nucleo, o almeno il simbolo, di un curioso film umoristico, indicano già uno stile» scrive Antonioni, quando racconta di aver pensato di sceneggiare l'Introduzione alla filosofia matematica di Bertand Russel, libro serissimo, ma ricco di spunti comici. «Il numero due è un’entità metafisica di cui non saremmo mai sicuri che esiste realmente e se l’abbiamo individuata». Affermazione allucinante, dal punto di vista del numero due. Di un numero due protagonista.
Bene, Aldo e il numero due della storia de Il grido. Raddoppiato, triplicato, elevato al quadrato. E poi cancellato. Uno dei numeri possibili, l’operaio dello zuccherificio di Goriano, uno dei mancati protagonisti di Tentato suicidio, poniamo. Un uomo qualunque, preso dalla strada, come nei canoni del neorealismo, ma messo in una condizione ai confini della realtà, come nei capolavori di Road Serling o Richard Matheson.
Questo numero due qualsiasi viene strappato dal suo felice nuovo eden (la babelica torre dello zuccherificio) ed espulso dal paradiso terrestre. Un nuovo ciclo biblico, o mitologico, si apre (sette anni, sette anni con insistenza simbolica, è durato il rapporto con Irma), un pellegrinaggio costellato di tappe di sofferenza e di conoscenza, stazioni di una via crucis popolata di Maddalene, Irma, Virginia, Elvia, Edera, Andreina, Rosina. E poi scompare, cancellato. Cancellato dal proprio malessere, cancellato dal malessere della condizione postmoderna.
Resta il grido finale, un grido che viene anch’esso da lontano, Munch e l’avanguardia, e ritornerà nella cultura degli anni ‘60. Anche soffocato come un lamento, nella cupa nave che approda, nella rada di Deserto rosso.